Bergamo è un fiore

Ai piedi delle Orobie, città di architetture e atmosfere insolite, incorniciata da bellezze naturali con in dote un patrimonio culturale di rilievo, ai più forse poco noto. La parte vecchia dell’agglomerato, se si ha la fortuna d’incontrarla di sera, risalendo lungo i tortuosi muri che scortano verso l’alto, tra il silenzio e il profumo delle fioriture, sprigiona un fascino davvero singolare.

Verso la Città Alta, salendo lungo le antiche mura

In questo momento si stanno tenendo tantissime iniziative per vivere al meglio i percorsi urbani e sperimentare la vocazione artistica del luogo. Bergamo è infatti capitale italiana della cultura per il 2023. Molte le installazioni e i programmi che vanno dai festival musicali alle mostre, fino alla scoperta dei numerosi ecosistemi cittadini – ad esempio con la sentieristica dell’orto botanico, vero e proprio giardino pensile che sovrasta le mura veneziane.

Questa del paesaggio fiorito è forse la più spiccata delle caratteristiche offerte da Bergamo nella stagione calda. Roseti dappertutto. Una città letteralmente incoronata di rose. Una propensione ‘botticelliana’ e non a caso il maestro del Rinascimento si affaccia dalle sale dell’Accademia Carrara, sfaccettato gioiello dove sono raccolti capolavori assoluti. Un ambiente davvero suggestivo. Gustare la prossimità delle prealpi, percepirne la presenza, mentre ci si immerge fra i quadri del Quattrocento toscano, e poi Carlo Crivelli, Sofonisba Anguissola – unica rappresentanza femminile – Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Andrea Mantegna, Giovanni Battista Tiepolo, Francesco Hayez.

Benozzo Gozzoli, Madonna con bambino e angeli (Madonna dell’Umiltà), 1440-1445
Vicino da Ferrara, Angelo che piange, 1465-1470


Voracità espressiva dell’allattamento
1. Bergognone (Ambrogio da Fossano), Madonna che allatta il bambino, 1492-1495 circa. * Il capezzolo enorme di questa Madonna-contadina a cui il bambino si attacca con vorace appagamento suggerisce una spiritualità davvero terrena, carnale, incarnata. Esempio stupendo della presenza piemontese nel Quattrocento lombardo.
2. Giovanni Antonio Boltraffio, Madonna che allatta il bambino, 1508 circa.

Carlo Crivelli, Madonna col bambino, 1482.

*Il quadro esposto alla mostra di Palazzo Buonaccorsi a Macerata quest’inverno. Ritrovarlo qui è stato rivedermi nell’istante in cui l’ho osservato nelle Marche. E questa del vedere più volte un’opera che ci innamora in luoghi diversi è quasi una trasmigrazione spirituale. Per me uno stato che mi fa ricordare esattamente com’ero, cosa ho detto, chi era accanto a me quando l’ho visto altrove.
In tale circostanza si è anche rinnovata la sorprendente continuità con cui quest’anno, ad ogni mostra che ho visitato dopo Macerata, mi è sempre venuto incontro un Crivelli.


Un Francesco Hayez sfolgorante, che sta sempre e ovunque molto bene...

Francesco Hayez, Caterina Cornaro riceve l’annuncio della sua deposizione dal Regno di Cipro, 1842 (dettaglio)


Nelle sale ho pure avuto il piacere d’incrociare l’ex direttrice di Capodimonte che mi ha raccontato fatti d’interesse sia della Carrarese che delle collezioni napoletane. Se questa non si chiama fortuna.

Fiori che trionfano anche in un bellissimo allestimento all’entrata dell’Accademia stessa, a precedere il percorso di visita. Una galleria che racchiude schegge floreali, come un abbraccio fra città, immaginario che è qui sedimentato e bellezze custodite.

Rosa fresca aulentissima

Nella mia permanenza mi è quasi sembrato di onorare un rito apuleiano. E infatti Apuleio si è poi materializzato sotto una delle porte cittadine nell’aspetto di una bizzarra opera contemporanea. Un ‘disco epigrafico’ che ha subito richiamato la mia curiosità. Me incredula!

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Pendoli e prodigi

Questa riflessione potrebbe intitolarsi pendoli e prodigi. Il pendolo è qualcosa che scandisce il tempo, anzi lo spazio ancor prima del tempo, con identico moto. Ha in sé qualcosa di ossessivo e perfino snervante. Ci fa sentire senza uscita ed è meglio non soffermarcisi troppo. Si rischia l’ipnosi o di restare inchiodati al suo ripetitivo dettato. Il prodigio è qualcosa che irrompe, inatteso, improvviso. Non è detto che faccia rumore. Anzi, spesso ci viene incontro impercettibile. Altre volte sembra quasi metterci alla prova. Saremo davvero in grado di coglierlo o la nostra sensibilità si è nel frattempo persa, soccombente ai ritmi sempre uguali e ossessivi del pendolo che ci svuotano le pupille? No, sentiamo ancora se quell’impercettibile ancora ci parla. E anche il pendolo, forse, diventa meno stringente. La sua cadenza non è più ad infinitum, inafferrabile, senza meta, ma diviene un cenno rituale.

Ero salita a San Pietro in Vincoli e mi aggiravo in una via laterale. A un certo punto si è alzato il vento, sempre il vento, che è spirito, anima, soffio vitale. Cammino nel primo pomeriggio, la luce è cambiata e io vago. Divago. Cadono all’improvviso dei calcinacci da un palazzone antico. I pochi frammenti si disintegrano sulla macchina sottostante, quelli più piccoli mi arrivano sul braccio, per fortuna senza conseguenze. Un turista accanto a me, visibilmente spaventato grida: “What’s happened?”. E io, appena dopo aver compreso: “The wind, the wall”, con una calma inusuale. Mi è sembrato di ripetere il verso di un poema. Quasi parlassi da chissà quale mondo. E non mi sono resa conto che intanto stavo tenendo il braccio fermo nella stessa posizione dell’attimo in cui avevo sentito cadere quei pezzi d’intonaco. Chiamarlo prodigio può suscitare inquietudine. In fin dei conti, diciamo, è andata bene. Oppure, si tratta di un prodigio proprio perché è andata bene. Ma c’è qualcos’altro. Nello spavento di quei secondi, che ho realizzato solo nel momento in cui ho sentito gridare quella frase accanto a me, mentre ho avvertito la mia pelle lambita da quei frammenti di muro, per me è stato come esser toccata, non solo da materia fisica, ma da un pensiero, un intendimento, qualcosa di molto vasto, di sapiente e presente come se fosse sempre lì dove siamo. E questo non può certo dirsi pauroso. Una mia amica asserisce con grande convinzione che si tratta per l’appunto di Wunder, e che vanno presi per quello che sono e bisogna rispettarli.

Io credo in una ritualità che appartiene agli eventi, agli incontri. Non credo alla casualità di questo turista al mio fianco che ha condiviso con me l’esperienza dello spavento e dello stupore. Un’esperienza così intima e frastornante, più intima e profonda di altre che consideriamo tali. Sacre cose che saluto sul mio cammino, perché attutiscono, rallentano il pendolo e, anzi, danno senso, illuminando tutto il resto. Ultimamente ho avuto molti riscontri così, meno rischiosi, ma di pari intensità, un’intensità che per ciascun caso si misura in modo diverso. Ogni volta ci si sente scavati, torniti come materia grezza plasmata da una mano che forse talvolta sembra togliere ma solo per aggiungere, per raggiungere un istante di comprensione, il senso, il vero che ci appartiene, che è per noi riconoscimento nostro e degli altri. Tali cose sono costellazioni, sono parte della bellezza a cui esortavo nelle mie poche frasi d’inizio primavera. Sono infine disvelamento e respiro.

Dunque certi attimi sembrano destinati ad essere più rivelatori di un’intera epoca. Lo ha già espresso qualcuno, se in forma simile o diversa non saprei dire con esattezza. Ci si sente infinitesimi, fibre lievissime che sono parte e non parte di qualcosa di molto più grande. Attraversiamo luoghi come in sogno. Siamo e non siamo. E capita un giorno di entrare in un giardino, di posare lo sguardo su un’erta un po’ arruffata, sulla delicatezza dei fiori. È un miracolo avvistare tanto splendore, soffermarsi sull’idea che la terra spontaneamente ancora ne offra. Proprio questo pensiero tra belle e delicate apparizioni è anzi il perfetto connubio, il vero incantesimo opposto alla bufera. Perché ormai ogni attimo risparmiato a ciò che è crollo e perdita, ogni intensità sottratta alla fuga del tempo, al rigore del pendolo, che altrimenti livella e abbatte e disfa, ha in sé una qualità prodigiosa. Passa un altro giorno e dal cielo scendono grandine e pioggia. Che ne è più della leggerezza e del sogno di quelle rapide ore vissute? Il vento ha frantumato l’intonaco di una facciata, la pioggia ha dilavato le alture. Qualcosa precipita vicino a me, mi tocca e non mi tocca. Lo sbriciolarsi di un muro in un vicolo, la caduta dei cieli. Materia per materia, tanto reale, altrettanto irreale. Davanti o dietro di me a delimitare un istante di verità.

Roma – Fioriture ai Fori Imperiali
Roma – Tra noi e gli antichi
Firenze – Il giardino dell’iris
Firenze – Il giardino dell’iris – panorama

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Qualcosa che resta

La morte di Joseph Ratzinger chiude simbolicamente il 2022. E chiude ritualmente un ciclo. La mia prima scrittura di quest’anno è dedicata a lui che mi richiama alcuni ricordi romani, il mio incontro con la Germania – e il complesso straordinario (alla lettera fuori dall’ordinario) rapporto con la cultura tedesca che da allora ho sviluppato – oltre alla ricerca costante, tenace di un confronto da opporre alla superficialità, alla dispersione, al disorientamento che proprio in questi ultimi anni ci ha chiamato alla prova. Non riesco a stringere in parole il mio sentimento di queste ore, perché si tratta di corde talmente intime e profonde che perfino lo scrivere sembra inadeguato se non manchevole.

Per molti cultori del disvalore la personalità di Benedetto XVI è inconcepibile, incarnazione di un massimalismo fuori dal tempo, di un’ortodossia cogente. Io stessa, giovane universitaria, infatuata da false e sbrigative emancipazioni, ammetto di aver in un primo momento frainteso l’uomo, di averlo giudicato in modo affrettato. Vivendo ci si accorge però che l’emancipazione priva di contenuti non costa nulla a chi la promette, rivelandosi piuttosto un disperante schiavismo per chi la insegue senza trovarla. Mentre la lezione di fede, umanità, umiltà («un semplice, umile lavoratore nella vigna del Signore») difesa con perseveranza da questo papa avrebbe acquistato forza – specie dopo le sue cosiddette dimissioni – sgretolando pregiudizi, contrapponendosi ad altri imbonitori dell’attimo.

Fino all’ultimo si è voluto scagliare sulla sua persona un preconcetto, sobillando una conflittualità latente, volta a distogliere, mistificare, dividere in fazioni. E invece nel suo entourage ci sono stati uomini integri, più aperti al dialogo tra le fedi di altri loro successori, e animati da un credo limpido, vibrante, caparbio.

Il mio ricordo si aggira in questa patria sentimentale. Ripenso all’Abruzzo, io che nel terremoto dell’Aquila ho avuto la vita salva da un tedesco che fatalmente mi distolse dall’andare in città proprio in quei giorni. Per me questo legame, accompagnato alla scoperta di una spiritualità che fino ad allora avevo respinto, trascende ogni altra relazione, perfino quelle di sangue. È forse paragonabile a certe ataviche cerimonie; penso a vecchi riti mediterranei, alle storie del comparato magico. Da allora ho anche proiettato sui tedeschi una qualità sensitiva, che non riesco a spiegarmi del tutto né mai mi spiegherò, e che talora mi inquieta. Un carattere che ho continuato a sperimentare in circostanze diverse ma pur presenti nel mio cammino.

Mi si è chiesto se i miei libri non ne siano inconsciamente un riflesso. Può darsi, ma di certo il mio tempo terreno non basterebbe a esaurire questo patto. È un debito per la vita che va oltre la vita stessa; qualcosa di inattingibile, che è destinato a restare, qualcosa che fa parte di un prima e che farà parte di un dopo, di là da me.

Di Joseph Ratzinger si disse che era fin troppo distaccato, timido, freddo per affrontare il dolore dei terremotati. Invece, andò in Abruzzo, si strinse a tutti, accarezzò e si lasciò accarezzare. E sono immagini bellissime, di spontaneità, vicinanza, conforto. L’umanità è forse alle soglie di un disvelamento. Il conflitto perciò più esasperato, sembra inasprirsi, macinare ancor più aspettative. Ma ciò è anche indicativo di una fine. La fine come nuovo inizio. La morte di un papa che non è scomparsa ma qualcosa che resta, offrendo la sua sostanza spirituale perché più certa, salda, benedetta sia la vittoria di chi sinceramente ama.

Benedetto XVI a L’Aquila dopo il terremoto

L’indispensabile difesa della spiritualità