Cultura diffusa – Alla scoperta del Piemonte

È di questi giorni il meritatissimo riconoscimento dei Musei Reali di Torino come polo culturale di primo livello, equiparato a Uffizi, Colosseo e Reggia di Caserta. In una regione di straordinarie bellezze naturali, che si accompagnano a un vastissimo e affascinante patrimonio artistico, dove il turismo si è fatto largo con meno clamore (e meno travisamenti), siamo di fronte a una dichiarazione di estremo rilievo.

Non si sa perché, il Piemonte è stato da sempre considerato forse meno attrattivo, almeno in certe frettolose narrazioni pubblicistiche. Sconta diciamo la sua indole un po’ burbera e dimessa. Non è un territorio che si rivela al primo passaggio né si concede agli sguardi superficiali. E ciò, a mio avviso, costituisce un punto di grande forza.

Questa indole la si comprende molto bene in un confronto fra la montagna piemontese e quella trentina. Al di là dei caratteri regionali diversi, che hanno comportato scelte e orientamenti in molti casi opposti, il Trentino è per larga parte un’affascinante e ordinatissima cartolina. Entrare di sera in Val di Fassa con la luce radente che accende le Dolomiti sullo sfondo è qualcosa che ti resta per la vita. La differenza che rilevo non riguarda dunque il paesaggio, suggestivo nei due luoghi, ma i caratteri degli abitati che si sono voluti conservare o a cui si è deciso di rinunciare. In Trentino trovo magari una sola baita con le vecchie travature nel centro di un paese, un miracolo risparmiato dalla foga della ristrutturazione, attorniato da alberghi moderni con servizi al top che però finiscono col togliermi qualcosa dell’intimità del posto. Mentre in quei pochi metri fra i muri cadenti e il legno disfatto amo passare più tempo che altrove, proprio perché lì finalmente il luogo mi parla.

Quando si arriva in alcune borgate del Piemonte, capita di metter piede in un ambiente fermo nel tempo, talora di rifugi cadenti – anche spopolati, e questo può essere pure un problema o forse no – ma ancora si osserva un ambiente alpino con i suoi caratteri di un secolo fa. E non è una montagna facile da capire, perché non ci sono canoni prestabiliti, riferimenti esatti e già noti. È la bellezza difficile di cui parlava Sciascia, quella che non si offre in modo scontato. Una bellezza tacita, che ti cade davanti improvvisa e coglie impreparati.

Nel marzo di quest’anno la Fondazione CRC, attiva in tanti progetti di altissima qualità per la tutela, lo studio e la fruizione dei beni culturali della provincia di Cuneo e, in generale, della regione, ha festeggiato il suo anniversario. È stata l’occasione per omaggiare figure di spicco che molto si sono spese per portare a conoscenza e comunicare le bellezze piemontesi, oltre l’ambito locale. Così Daniele Regis (Politecnico di Torino) in uno stralcio del discorso commemorativo: «Altri primati ci vengono universalmente riconosciuti (ma dimenticati da tutte le politiche europee sino all’ultimo PNRR) come l’eccellenza del patrimonio artistico, architettonico paesistico, demo-antropologico, agroalimentare, artigianale e naturalmente archivistico. Ai siti Unesco delle residenze Sabaude di Racconigi e Pollenzo e Grinzane, dei paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato, dei siti palafitticoli preistorici alpini, solo per restare alla meravigliosa provincia di Cuneo, per non parlare dei parchi delle Marittime e Gesso, corrisponde la rilevanza di un patrimonio diffuso senza eguali. E non parlo solo dell’architettura, del barocco che aveva sedotto l’americano Millon come Paolo Portoghesi, che ha dedicato le sue energie più belle nel suo indimenticabile libro molto fotografico sulle opere di Vittone nelle campagne piemontesi […] e ricordo la mostra fotografica sul barocco promossa da Viale degli anni Sessanta che aveva avuto 100.000  visitatori – o del neogotico oramai assurto, grazie al progetto CRC, ad assoluta rilevanza internazionale (con la benedizione di A. G. Dixon). […] Ma mi riferisco ancor più al patrimonio diffuso, che Pellegrino ha cantato in tanti libri, della montagna un tempo antropizzata, rimasta  intatta nei suoi abbandoni (e per questo così ricercata dagli stranieri stanchi delle ultra turisticizzate Alpi del nord-est), costruita dalla fatica di generazioni, raccontata in tanti suoi volumi stupendi». (Cuneo, 24 marzo 2023)

Cospicue sono state le progettualità messe in campo anche durante la pandemia. Campagne fotografiche estese, studi archivistici, catalogazioni imponenti, incontri e scambi che hanno tenuto nonostante politiche dissennate di chiusura. Certi atteggiamenti di intolleranza legati agli ultimi anni, aggravati da un serpeggiante dissidio sociale che ha visto scontrarsi proprio nel mondo della cultura persone animate da idee diverse e contrarie all’eccesso dei provvedimenti emergenziali, hanno finito con l’oscurare la genuinità e la bellezza di tante delle iniziative che si sono tratte in quel periodo. Non dimentico alcuni (indecenti) attacchi ad personam oltre al diniego da parte di taluni media di dare notizia di pubblicazioni e nomi di studiosi che avevano preso le distanze dalle politiche governative ispirate da austerità e autoritarismi sanitari. E questi sarebbero stati i ‘valori socialisti’? Comportamenti strumentali per intestarsi meriti valendosi del lavoro altrui, profittando delle condizioni di disagio dei singoli. Una cosa davvero gravissima da chi si dica artista o da chiunque abbia incarichi di ricerca.   

Allora, siamo felici di riprendere le fila di tante cose che ci hanno sostenuto e accomunato in un lasso di tempo difficile. Sui temi salienti di questi nostri studi siamo tornati nel corso delle ultime settimane per una lettura in chiave economica – con le crescenti sfide che ci pone e impone una nuova gestione economica – in un lungo saggio che uscirà a giorni. Abbiamo pertanto parlato di progetti diffusi, non solo in Piemonte ma anche in altre aree d’Italia. E di come il museo, assai più di altre istituzioni, abbia la possibilità e la responsabilità in questo momento storico di definirsi come interprete di dinamiche e tendenze innovatrici che sappiano fare la differenza in termini di modelli educativi e ricadute territoriali.

Benvenuto, Piemonte, dunque! E benvenuta sia una ritrovata capacità dinamica e progettuale che scardini certe ritualità puramente ideologiche e consequenziali impaludamenti del mondo culturale.

Pratonevoso – Artesina

Storica Libreria La Montagna – Via Sacchi – Torino

Celebrazioni del barocco piemontese (2020)

Venaria Reale – Il Parco

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Quando rinascono gli dei

Veste con fiordalisi. Dettaglio della Venere di Sandro Botticelli (figura femminile alla destra della dea)

Al giorno d’oggi capita di vedere gli dei rinascere. Cartonati, in maglietta, si presentano al pubblico, posano per un selfie tra i monumenti o si godono sfondi balneari. La divinità veste panni umani, tecnologici, al passo coi tempi – non fanno che ripeterlo, forse più per autoconvincimento. In tanti guardano e criticano – piovono meme da ogni dove, il modo più diretto per irridere, un bizzarro regolamento di conti (con qualche spunto simpatico, bisogna ammetterlo) interno al social network. Alcuni, ma meno, procedono all’opposto e affermano che è un successo proprio perché se ne parla così tanto. Pubblicità che si autoalimenta – anche questo secondo l’imperio social. I diretti interessati, che hanno presieduto al rito di rinascita, ringraziano, proprio perché si è fatto da subito un gran parlare e spippolare.

Del resto, con il velocizzarsi della comunicazione, direi con l’ascesa del suo carattere istantaneo, va di moda affermare che una cosa viene legittimata dalla forza con cui irrompe e s’impone nel dibattito. Che si tratti di un brutto episodio o di un bel gesto è secondario. L’importante è che se ne parli. Di sfuggita facciamo notare che la tendenza cui si assiste è quella che incensa la pessima fama. Vagamente aleggia il pensiero di Napoleone: parlate bene, parlate male… A quanto pare il condottiero francese aveva già carpito il segreto di autorevolezza (e metriche!) molto prima dell’avvento di internet.

Qualcuno sostiene che si tratta di critica per partito preso. Quale partito? Se oggi vi è una certezza, è che non si sa più con chi si parla. Un giorno siamo di potta e un giorno di culo – nell’esprimere una bassezza dei nostri tempi scendo volutamente di registro, adatto anch’io la comunicazione.

Nell’ultimo Sanremo abbiamo assistito ai vistosi sdoganamenti di Instagram – il motto era instagrammatevi tutti… che così risolviamo i problemi (questo lo aggiungo io) – e ai calcioni menati alle povere rose ornamentali del palco. Operazioni mediatiche, cui la prevedibile polemica del giorno dopo ha dato forza. Innalzamento dell’hype… ho detto hype, giuro che non è una parolaccia [“montatura pubblicitaria”; tradotto per noi comuni mortali] come social comanda. La mattina successiva al raptus Blanco spopolava nei trend, mangiandosi tutto. E infatti chi voleva cavalcare a sua volta un po’ di quella visibilità si è affiliato e affidato al suo traino.

Butto lì ancora un paio di riflessioni. La Venere pop di Andy Warhol continua ad avere un senso. La guardo, non mi urta per nulla, anzi. Tuttavia alla luce delle attuali dinamiche, qualcuno ha finito per identificarla con l’inizio di un processo di desacralizzazione (o sacrilegio) dei grandi classici. Comunque la si pensi, rimane la proposta di un creativo che costruisce un linguaggio per conto proprio (non un esperimento dell’IA, non un ammiccamento alle logiche del mercato virtuale). Gli improbabili e disarmonici patchwork, i mixage ispirati dagli influencer, le citazioni e i rimbalzi da account affollati, che poi si scoprono seguiti da identità-non identità, insomma quest’arte fluida, posticcia, ineducata e che dunque non potrà educare, è figlia nostra, nata dalla digital economy. Il mio assunto è molto semplice, perfino banale – ma ovvietà per ovvietà, preferisco il luogo comune ad ogni sovrastruttura pacchiana. Io dico che Sandro Botticelli è il miglior influencer in proprio che si possa immaginare. Quello che gli si mette intorno o, peggio, davanti, non è nulla o quasi. È un momento scenico, quindi effimero. Quando non si limita ad essere impacciante, scade nel ridicolo. Ciò significa infine prestare il fianco a un’economia di cartapesta – non lo dico io ma autorevoli analisti intervenuti anche poche settimane fa, dopo il crollo delle banche regionali in Silicon Valley. Tutto allora è sembrato esplodere in un attimo per poi, c’era da scommetterci, riassorbirsi alla velocità della luce; peccato che ancora non si sia fatta chiarezza sullo stato di salute di molti degli istituiti regionali coinvolti. Basti questo dato, che dovrebbe farci trasalire. In una settimana sono stati stampati 400 miliardi di dollari. Praticamente risulta che per tamponare la falla si è prodotto un debito equivalente a quello accumulato in duecento anni di storia economica degli Stati Uniti.

Quando gli dei rinascono open e social è sempre un evento. Così affermano. Quale sia il senso non importa. Ed ecco servito lo scotto che paghiamo all’essere anche noi rinati digitali. Chiudo dicendo che non demonizzo a prescindere certi strumenti di comunicazione. Ma il punto è nobilitarli, se possibile. Innalzare il livello. Renderli funzionali a divulgare qualcosa di non scontato, perciò provando a utilizzarli in modo non convenzionale. Poi ci sarebbero le questioni in fieri relative all’uso dei dati, alla privacy, alle profilazioni più o meno selvagge, al copyright degli artisti che non approfondiamo qui, ma che non sono di secondaria importanza per rendere infine credibili questi contenitori.

Avevo già avuto modo di scrivere che la discussione sui cosiddetti nuovi media è solo agli inizi. Ne sono profondamente convinta. Come sono convinta che certi canali possano aiutare a smuovere l’aria asfittica di alcune inviolate stanze. Ma ci vuole intelligenza. Perché a scadere nella corrente della diseducazione ci si mette un secondo, il tempo di un click.

John Dewey è stato uno tra i pensatori che maggiormente hanno contribuito al dibattito sulla fruizione dell’arte. Il fine educativo è per lui inderogabile. Lo accosto volentieri a Fernanda Wittgens, fra le menti più moderne e aperte nella cura del nostro patrimonio culturale, che molto si è spesa anche in qualità di educatrice, la quale era convinta che «i tanti intellettuali ignavi e asociali sono i veri responsabili della tragedia italiana». Come darle torto. Questa frase me la voglio incidere su una parete. Che danni fa la spocchia, che disastri la saccenteria. Queste sono le vere cose contro cui fare argine. Altrimenti il paese invecchia ancor più che nel bios nei cervelli. Il che è la vera iattura. Allora, meglio mille volte chi smuove l’aria. Se poi sbaglia o fa qualche scivolone, va anche bene. Basta non rimanere fermi. Sul resto, sono più che certa sia possibile trovare una misura. Purché non si perda di vista la realtà. Quando si pensa al turismo, oggi, è d’obbligo lanciare strategie indirizzate a distribuire i flussi, gettando un occhio (meglio entrambi) alla sostenibilità, aprendo letteralmente vie nuove. Quindi servono prima di tutto le infrastrutture. Come copro i quattro chilometri dalla stazione alla fortezza di Talamone? Un esempio che vale per tantissimi itinerari. Con la bella stagione le piste ciclabili sarebbero la cosa più semplice, senza impatto ambientale, comode, piacevoli. Solo che in Italia non ci si è mai voluto investire più di tanto. È un esempio fra i tanti. Insomma, la vera rivoluzione io credo stia nel saper interpretare e coniugare esigenze diverse, ispirati da valori ben distanti dal mero e insostenibile consumismo.

Venere in una pittura pompeiana

Di seguito un paio di articoli per approfondire alcuni temi toccati in questa riflessione. Il primo sulla campagna Open to meraviglia. Un buon articolo. Va in direzione contraria e chi dice cose in direzione contraria mi piace. Anche se non concordo con l’idea base di “bersaglio grosso” e “bersaglio piccolo”. L’Italia è il paese per eccellenza del patrimonio diffuso. La somma di queste meraviglie diffuse sul territorio fa il cosiddetto bersaglio grosso. È una questione di riorientamento del punto di vista, un problema nodale per i motivi che ho spiegato a conclusione del mio scritto.

Open to Meraviglia: top o flop? su «La Svolta»

Poi un vivace commento sull’ascesa mediatica di Chiara Ferragni. Credo che sul suo passaggio a Sanremo si sia scritto un articolo al minuto, un po’ come per il dibattito su Open to meraviglia, dove del resto, e a ragione, si è rilevata una discreta presenza di “ferragnizzazione”. Ripropongo questo articolo non in quanto pamphlet sul personaggio che si sa essere estremamente divisivo e rumoroso ad ogni colpo di tastiera, ma perché è molto interessante l’analisi sulla sovrapposizione fra life e content, che a mio avviso aiuta a capire in quale “gioco” (o assillo) siamo immersi.

Chiara Ferragni, il racconto dell’ancella dell’algoritmo su «Rivista Studio»

Una montagna d’arte


Nelle settimane del ritorno dei cosiddetti grandi flussi turistici – sempre ingolfati nelle stesse due, tre mete – mentre prendono il via campagne pubblicistiche che lasciano perplessi, non fosse altro perché corteggiano l’ingorgo e coltivano i soliti stereotipi, in netto contrasto proprio con quel dichiarato spirito di modernità a trazione social alla base di tali sponsorizzazioni, riteniamo ancora più utile incentivare percorsi alternativi. L’Italia si contraddistingue per un ampissimo e variegato patrimonio diffuso. Si può prendere una stradina collinare e imbattersi in decine di cappelle votive, nicchie, antiche sepolture, pievi isolate, resti di bagni termali, pietre che forse un tempo furono sacre. Non è già forse questa un’esperienza d’incontro e contatto con le tracce della nostra cultura, coi segni di una persistente bellezza? Si può stare affacciati a una balaustra in una giornata di vento e guardare l’erba dei prati che si alza e si spiana in un respiro lunghissimo e ritmico come fosse un’onda, lo strumento di un’invisibile orchestra. E in fondo un filare d’alberi, e poi il bosco che s’inerpica al monte, in ogni tono di verde, nel fresco aroma delle fioriture. È il dono del Mugello, contrada d’arte e belle campagne e suggestive viste montane. In questo territorio, locus amoenus vocato alla spiritualità, in cui si sono intrecciate nel tempo energie creative e mecenatismo, hanno avuto i loro natali Giotto di Bondone e Beato Angelico. Rispettivamente, l’uno sul colle di Vespignano, l’altro su quello di Rupecanina. I dintorni di Vespignano, nell’abitato di Vicchio, a quel che si sa fecero anche da cornice all’incontro fra Giotto e il futuro maestro Cimabue che lì era solito rifornirsi di materiali per la sua bottega fiorentina. In tempi più recenti questo dolce paesaggio è stato inoltre rifugio d’amore e poesia per Sibilla Aleramo e Dino Campana. Continuità di immaginazioni, dunque, sogni e sensibilità che nei secoli si sono tesi la mano.

In un siffatto ambiente così denso di richiami non stupisce varcare la soglia di un piccolo museo. Piccolo per dimensioni ma gigantesco per quanto custodisce. Si tratta del Museo di Arte Sacra Beato Angelico a Vicchio. A illustrarmelo è stato un filosofo dell’arte, che si è soffermato anche sulle esperienze di visita di altri viaggiatori, condividendole con me. Una cosa che da antropologa ho trovato molto interessante, cioè leggere le opere calandosi nell’emotività altrui, in chi per primo ha attraversato uno spazio, così da ripercorrere e mischiare le tracce del suo passaggio alle proprie impressioni. Per la seconda volta, poco dopo le mostre romane, si è ripetuto un episodio simile; ovvero mi è capitato di parlare con persone che spontaneamente mi hanno raccontato le loro vicende professionali nell’arte o da grandi appassionati, senza essere storici dell’arte puri, per così dire. Ne ho tratto insegnamenti e chiavi di lettura non scontati che bisognerebbe tenere in maggior considerazione quando si ragiona di attrattività, di innovazione e pubblicistica (per tornare all’argomento d’apertura).

Del resto, la permanenza stessa in un luogo d’arte si nutre di diversi elementi che concorrono a svelarci il suo carattere, contribuendo appunto a farci entrare in relazione con ciò che vediamo a un grado più profondo. Di storia e storie, di identità, incroci, stratificazioni.

Credo che il Museo di Vicchio e la Casa di Giotto, appena fuori paese a due chilometri circa di distanza dal centro, siano due poli da includere necessariamente in qualsiasi progetto di valorizzazione del patrimonio diffuso. Centri e risorse in grado di accendere un interesse, di avvicinare a paesi e paesaggi altrimenti scavalcati dalle rumorose traiettorie di un certo turismo. È quindi auspicabile che siano due presenze fisse, da coinvolgere in modo permanente e capillare in ogni iniziativa dedicata a questi territori o anche di più ampio respiro fra aree e territorialità che intendano unire punti di forza e somiglianze per educare al senso della storia e della bellezza.

In accordo con la direzione non vengono diffuse fotografie delle opere esposte. Qui solo uno scorcio con vista d’insieme dalla sala d’ingresso che include una terracotta invetriata di Andrea della Robbia, una Madonna del latte in terracotta (di anonima manifattura toscana) e sullo sfondo una Madonna con bambino della bottega di Jacopo Chimenti detto L’Empoli. A sinistra, sempre all’entrata, non inclusa in questo scatto, c’è una raffinata Madonna assisa quattrocentesca del cosiddetto maestro della Madonna Straus.
E questo è solo l’inizio del percorso. Buona meraviglia a chi entra!

Per tutte le informazioni relative alla storia e alla collezione si rimanda al sito dedicato:

Museo d’Arte Sacra Beato Angelico – Vicchio – Piccoli Grandi Musei

Primavera e montagne in Mugello


* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Tutte le informazioni utili sui relativi siti e canali social
(clicca qui sopra per ingrandire)


Fino al 30 aprile 2023 il Trittico di Nicolas Froment in Bosco ai Frati
per Terre degli Uffizi in Mugello. Mostra promossa e organizzata dall’Unione Montana dei Comuni del Mugello.