Ierofania

Tramonto sulle Alpi Apuane da San Giuliano Terme

Via Montelungo, case basse tinteggiate di giallo, forse vecchie manifatture. A piedi dal sottopasso s’impiega abbastanza per affacciarsi sull’Aurelia. Una galleria che ti scava dentro e sembra non voler finire. Quando si sbuca dall’altra parte il tempo è cambiato. Prima il sole, poi umido e piovigginoso. Un mazzo di fiori legato con un fil di ferro a un tronco d’albero, memoria di qualcuno venuto a mancare lì nei pressi. Brividi all’idea di un investimento, mentre la pioggia sferza il ricamo della stoffa che cinge i fiori. Il tutto nel giro di una decina di minuti. Cos’ho attraversato dunque?

Passaggio a livello. Il passaggio. Un binario che si perde in campagna e mi rimanda indietro scene vissute altrove – simili o meno non importa. Sempre un cammino che si apre e si chiude sovrapposto o confuso a una visione ricorrente, un mantice che ripete senza posa “riconoscersi o perdersi”, ma non poterlo fermare, non saperlo afferrare. Nulla s’impara in questa discesa, nulla si antepone o pospone. È quasi un franare, di materia che si sgretola intorno, d’immateriale sostanza dove non c’è appiglio né corda che tenga. Acqua gorgogliante che trafila nelle chiuse, giorno e notte sentirla sussurrare dalla piana novarese. E la mattina sfiorare il fresco dei giardini e aver davanti la montagna scolpita. Vista delle cime innevate sopra lo specchio delle risaie, tutto in riflesso come un mondo rovesciato, su cui ubriache dondolano le fioriture. L’acqua e la pietra, il fluire dei silenzi, le caviglie che oscillano nella ruota della corrente.

Baia dei Saraceni_Liguria_Riviera di Ponente

Esser di qualcosa, farsi cosa, chiamarsi come i luoghi, a questo mi capita talvolta di pensare. I nomi di due mie bisnonne erano Elba e Vienna. L’isola, o magari anche un fiume che scorre a nord, e l’impero. Ma nel caso della mia antenata fu l’isola. Nata a Marciana Marina, in tarda età prendeva ancora il mare da sola per attendere alle ultime incombenze familiari, le sue lettere vergate in una grafia tesa fra orgoglio e scioltezza. Vienna invece morì giovane, sul ciglio di una strada, vittima di un incidente mentre festeggiava l’arrivo degli americani. Una morte improvvisa e precoce, beffarda verrebbe da dire, in mezzo alla gioia degli altri. Una fine che ha segnato almeno due generazioni di donne, quella della figlia di lei e di mia madre, orfane di una guida, di una spalla su cui poggiare il viso. Sul canterale di camera nella prima vecchia casa-torre dove ho abitato, una casa inforrata tra i vecchi vicoli di mezzogiorno, c’era una fotografia in cui mi specchiavo. Perché Vienna aveva lo stesso mio viso, la medesima forma, volendo anche un lampeggiare perso e melanconico nello sguardo.

Chi riceve il nome di un luogo prende su di sé le sorti di altri mondi. Credo di averlo imparato bambina davanti a quell’immagine, nella luce fioca di quella stanza, quando si tirava il velario per lasciarmi dormire. È fatale sia così. Se poi in una stirpe scorre sangue isolano il suo sciabordare sarà onda e risacca. Il legame con un lembo di terra circonfuso dal mare non si estinguerà nella terraferma ma premerà, torcendosi fin dentro i sogni di una marea carnale.   

La Sacra immersa nell’ombra

Affiorano nella mia storia un arcipelago mediterraneo e uno asburgico, molto più di due geografie, e un abisso alquanto più profondo dei ritratti incorniciati sui mobili di casa. Ho ereditato la somiglianza a due parenti giovani, tolti alla vita prima che potessero pienamente coglierla. Lo zio diciottenne dell’altra mia nonna, il fratello di Elba, morì poco dopo l’inizio della grande guerra. Partendo disse che non sarebbe tornato. E prese congedo. Si potrebbe pensare che le forze di due esistenze non vissute talora si avvicinino di nuovo al mondo. Infatti io sento a momenti dentro di me queste energie sparse e allo stesso tempo contratte che vorrebbero liberarsi, senza trovare ascolto. O se le ascolto e sto per afferrarle, sono loro a sottrarsi. Non so perché fuggano così, magari sono io a non sembrar pronta, non ancora, non ancora.

Quanto al battesimo del luogo ha preso in me un’altra svolta; simbolica, purché non suoni troppo stentoreo. Vengo dalla torre. Architettura e numero della mia nascita nella stesa dei ventidue arcani. I tarocchi l’additano come una carta veloce. Temibile e veloce. La carta del cambiamento. Una resa dei conti. Suo custode è il mago, che lavora dietro le pareti; ma anche altri possono abitarla. Non vi è certezza al riguardo. Improvvisamente colpita da un fulmine, la struttura cede. Pure non si tratta di una fine, piuttosto è la catarsi, una liberazione, la fuga verso l’esterno di ciò che era costretto fra le mura. È la caduta delle apparenze, l’incantesimo sciolto, la fecondazione, la schiusa. Il venir meno di rigidità che hanno ostacolato, la crisi di chi si è opposto e non può più opporsi. Di chi ha calpestato e non può infine perpetrare il suo scempio. È il germogliare del seme interrato che ha corso pericolo di soffocare ma che un impulso incontrollato spinge nell’alto e nel fuori. Questa energia decide il nome e i destini, stabilisce il loro apparire, è l’artefice segreto. Non c’è atto che possa fermarla, quando la sua volontà prepara i nuovi cammini.

Sono stata io calpestata? Ebbene, al colmo mi sono aperta una breccia, anzi mi sono fatta breccia. Con brutalità andavano ripetendo: “impara a fare le cose per te”. Di tipi che mi hanno parlato addosso ne ho incontrati parecchi. Non traevano sincerità né sintonia, perché non gli corrispondevo. Brancolando nella cecità peggiore, quella dei sensi, non vedevano come tutto in me prendeva forma per contatto, nell’innocenza di un tocco che era già destino. Perché l’autentico lo scambiavano per inautentico. La spontaneità era misfatto e il misfatto dell’oggi è che siamo continuamente distolti. Ma infine la crepa si è aperta.

I monacelli vegliano la Gorgone

A quanto si racconta c’erano un tempo sull’Appennino molte guaritrici. Ci si andava per avere un responso. Sull’olio versato in una bacinella si facevano segni, cantando parole incomprensibili. Me ne hanno riferite tante di storie così. Anche di gente famosa che da piccola era andata a consulto. Nell’esorcismo risaliva la sapienza montanina, la mantica di una poesia che non si scalfiva al pari della pietra, sigillata in qualcosa d’ignoto che adesso rifiutiamo costernati.

Io osservavo le selle dei monti, il crinale spoglio dove pochi alberi resistevano con le chiome pettinate dal vento e la pietraia in bilico sul mirteto. Fatalità dei nomi e dei luoghi, numeri che compongono date che s’intrecciano a date precedenti e seguenti, arcipelaghi dove si affollano i ricordi. I sei anelli di una torre che disegnano una nascita. Il nord e il sud, tra spinte e controspinte, la fiaba gotica sulla fronte greca. Mia madre e mia nonna mi tengono per mano all’ingresso della piazza. C’è tanto sole ovunque, la piazza è luce, le nostre dita sono luce, bianco su bianco.

Veloce la mia carta si è levata dal mazzo. Ero bambina un attimo prima, dietro l’ombra del velario. Ero un’isola nella carne dei miei antenati isolani. Passaggio sul confine. Approdare alla terra dalla propria terra e da lì in altre contrade, in numeri e giorni che sembravano far eco e replicarsi nei miei. Nello specchio di un volto verso cui mostravo somiglianza. E lì mi sono guardata e cercata come mai avevo fatto prima. Lì ho intuito qualcosa che mi trascendeva, che ognuno di noi trascende. Poi tornavo a fissare le pieghe dei crinali, l’eterno poema del bosco e del monte. Qualcosa che si è schiuso ma non ancora schiuso, il seme meraviglioso che benedice il tuo nome e dice tu sei.

Esuli di ieri e di oggi. Memorie istriane

Barcola prima del temporale

Ricordo un cambio repentino di luce, come un’anima che entri in un’altra. La città mi salutò così. È così che ho attraversato il golfo di Trieste. E la sera bevevo un caffè in Viale XX Settembre sotto un cielo lampeggiante. Per ore la tempesta ha continuato a indugiare e sembrava che tutto il golfo danzasse uno strano rituale che non si decideva al compimento.

Nei giorni successivi ho incontrato un istriano, fulvo di capelli, che mi ha costretta a seguirlo e che in tutti i modi voleva farmi una cabala. Diceva di esser stato un esule, di venire da Pirano, additandomela sull’orizzonte. In quel momento la luce che la illuminava era di nuovo così enigmatica da dipingermela come una scheggia di un altro mondo. Aggiunse poi che si sarebbe espresso sul mio destino non prima di aver giocato una dozzina di mani con le carte triestine, con le quali mi imbrogliò bellamente, perché faticavo a ricordarle. Né da parte mia ebbi voglia di applicarmi.

Quindi compitò su un foglietto numeri e date. Alle spalle avevo Miramare, la cui fatale presenza avvertivo sopra di me, intanto che seguivo la mano scarna del mio indovino. Pensai che il cabalista mi stesse prendendo in giro una seconda volta, ma il modo in cui mi affidò il biglietto dissipò in me ogni dubbio. In quel momento ebbi la certezza che l’adorabile ciarlatano sapeva il fatto suo.

Più tardi, una sera di fine settembre, un sentiero che porta sulle mura di Lucca, direttamente in uno degli affacci più belli della città, dietro il campanile di S. Frediano. Anche l’ora poteva dirsi la più propizia per girare in quel luogo. Sul tardi, quando il sole si posa obliquamente sopra le architetture e i monti e tutto il resto sembrano sciogliersi in un irrefrenabile trapasso. Ero tornata a camminare lì dopo il mio passaggio a Trieste, giorni intensi segnati da narratori d’eccezione, gente che con spontaneità, signorilità d’altri tempi, e perfino una sana follia, mi aveva donato un pezzo di sé: che Trieste sia una finestra sul mondo è vero non solo per l’intreccio di cultura ed eventi che vivono nei libri e continuano a scaldare il cuore della città, ma più ancora per la miniera di tipi umani in cui ci si imbatte. Mi ero lasciata indietro Miramare, il mansueto guardiano del golfo, il bambino bianco che si fa beffe del tempo, e mi ritrovavo a passeggio su questo scorcio di mura antiche, in una luce calda che ne alleggeriva i contorni. Dentro di me si fece avanti una presenza, quasi una vicinanza che rivendicava attenzione. Forse perché avevo ancora nelle orecchie le voci di chi nel mio viaggio mi era venuto incontro. Ma no, sentivo che era qualcosa di più forte. Non sono affatto metodica e raramente mi soffermo su targhe e iscrizioni. Eppure avvertii il preciso bisogno di voltarmi. Ridiscesi il sentiero e mi avvicinai al grande edificio bianco sulla destra, che sorgeva come un panno steso dietro S. Frediano. Possibile che sia una scuola? No, il liceo classico è in una strada vicina, non mi sbaglio. Provai una strana sollecitudine che mi provocò a leggere la targa commemorativa. Nella grande casa bianca, che per certi versi al tramonto ricorda il candore di Miramare e che guarda le alture al di là delle mura, azzurre come onde portate lì da un’insolita corrente, trovarono ricovero molti esuli dell’Istria. All’improvviso tutto mi divenne chiaro. Guardando là oltre, in quei momenti di strazio e sradicamento, magari più d’uno si sarà sentito confortato qualche attimo dal sole che veglia i bastioni, dove il verde cupo dei monti, che a tratti vira in blu, ricorda i dolci profili istriani. Sono rimasta senza parole. Mi sono venuti i brividi.

Anni dopo, una notte tra i carruggi di Genova, avrei avuto precisa conferma dei miei numeri, dei destini che vi si agitavano. Ad ascoltare di nuovo le cifre sillabate nel caldo soffocante di un’altra città, in ore incomprensibili e certamente non di questa terra, mi sono sentita quasi divelta.

(Claudia Ciardi)

Barcola

* fotografie di Claudia Ciardi

È  raro che in poche battute le persone si rendano disponibili a rivelare qualcosa di sé. Questo grado di profondità, raggiunto con inspiegabile spontaneità e immediatezza, l’ho sperimentato finora solo a Trieste.

Stralcio di corrispondenza con uno degli artisti triestini (ottobre 2014)

La follia abbatte il personaggio perché si impadronisce dell’anima, voglio difendere la mia anima e la mia persona perché nessuno lo farà mai.

Attualmente ho una mostra delle mie opere dove rappresento l’interno della grotta di mare a miramar, nel parco dove due amanti si incontrano come in sogno, sono stati Massimiliano e Carlotta sicuramente due spiriti, a suo tempo, che aleggiano, e forse due amanti che sognano di esserci. Folli son quelli che si lasciano travolgere dalle furie, io non voglio e se è successo nella mia vita non ero cosciente, pensa forse capirai.

Me – ottobre 2014

Quello che fai è molto bello. La tua grotta è un mondo incantato in cui i sogni di tanti vengono a darsi appuntamento.

È strano come la tua sfrontata esuberanza si richiuda all’improvviso. Ne resto quasi sconvolta.  

Purtroppo la realtà è cosa assai ruvida e spesso distaccata da una più autentica comprensione. Però, finché siamo qui, è inevitabile viverla. Ma può anche essere bello abbandonarsi, se bello è ciò che ci afferra. A dircelo è qualcosa che ha a che fare con l’istinto, credo. Le sensazioni sono continuamente esiliate nell’epoca in cui viviamo, e questo è un male, male per la creatività, male per l’arte, male per la spontaneità dei rapporti tra esseri umani. L’aridità è la cosa da cui non vorrei mai essere dominata. E un artista, per sua stessa inclinazione, non può essere avaro di sé.

La tua anima la culla Trieste, lo ha già fatto per tanti. È generosa e calda come una madre, e ti sorregge. Non dimenticarlo. Te lo dice una forestiera, che ama guardare lontano.

13 ottobre 2014

Per fortuna la grotta sul mare esiste è reale non è un sogno quindi sono al sicuro dalla follia lontano lontanissimo tocco la realtà con mano ….. finché vivrò.