Gli antichi e la montagna


Nel corso di alcune ricognizioni sui paesaggi sacri del mondo antico ho avuto il piacere di riscoprire un bel volume edito da Celid che raccoglie gli atti del convegno tenutosi ad Aosta nel 1999 sulla montagna secondo gli antichi e le sensazioni che in loro suscitava. Non considero casuale questo “affioramento” librario visto che più volte nella cerchia dei sodalizi torinesi ho avuto la fortuna di parlare con chi alla Celid ha lavorato in un periodo di grande intensità per la casa editrice. Questa impresa, nel momento di più ampia diffusione della propria attività, si è valsa di editor accurati, procedendo a dare spazio a temi poco o affatto funzionali alle logiche di mercato, cosa che ha contribuito a un’impronta significativa quanto peculiare nel catalogo prodotto negli anni Novanta. O meglio, le esigenze del mercato di allora – e sono passati neppure una trentina d’anni ma sembra molto di più – contemplavano progetti in grado di resistere al tempo. Il libro, in quanto strumento di conoscenza, era chiamato a inserirsi nella costruzione di un pensiero ben delineato: il che non significa limitato, ma bilanciato e insieme aggettante. Con gli amici torinesi è spesso accaduto di parlare della solidità e durevolezza di certi libri passati, nel senso strettamente cronologico di pubblicati appena qualche decennio fa, rispetto alla nostra epoca di autopromozioni e lavoro creativo in serie. Leggendo simili opere si ha l’impressione di essere costantemente stimolati dalla materia scritta, un qualcosa che non risulta fine a se stesso ma che si apre ad altrettanti interrogativi, alle ipotesi di un dire ulteriore. Questa dimensione policentrica o multifocale, e lo slancio che ne consegue, è ciò che forse oggi manca a molti studi e ricerche. Si tratta infine di un aspetto autenticamente comunicante in quello che intendiamo rappresentare e nel grado di comprensione che vogliamo suscitare.

Dunque il racconto di un lavoro condotto con passione e attenzione nei confronti del materiale manoscritto e degli autori, una storia che ho più volte ascoltato dalla viva voce di chi vi ha partecipato, trova piena conferma in queste pagine. Il tema della cultura e ritualità montana risale dalle pieghe millenarie non come un fossile o una collezione museale dimenticata ma nel pieno dinamismo contestuale delle testimonianze epigrafiche, storiografiche ed epiche. L’immaginario arcaico, classico e tardo vengono analizzati all’interno delle coordinate religiose e politiche dei popoli antichi, con speciale riferimento alla civiltà romana. Non le forme svuotate di una luminosa cultura per cui si struggeva il romanticismo tedesco, non le divinità come “esseri belli di un mondo di fiaba” secondo la lezione schilleriana o le trepidazioni di Hölderlin, per cui Apollo e Dioniso erano solo gli dei del sole e del vino, cioè riflessi delle potenze di natura, o i volti di un eroismo sublime, in ogni caso frammenti statuari e vestigia del tempo cui destinare un interesse antiquario e letterario. Qui il sacro e i suoi rappresentanti tornano a veicolare un universo valoriale significante, colmo del proprio respiro, inquadrato in un cammino di fondazione e sacralizzazione degli itinerari alpini.


Si tratta della incomparabile forza creativa del pensiero religioso antico, che Walter Friedrich Otto riferiva in particolare ai greci nel mirabile argomentare della sua Theophania. In generale lo spazio gelido e innevato delle vette è percepito come entità più appartenente al cielo che alla terra. Alla montagna era perciò legato un sentimento spirituale del tutto caratteristico e persistente nel tempo, insinuandosi anche in epoche nelle quali simili paure ancestrali non avevano più motivo apparente di esistere. Il civis romano ha trionfato lungamente, spingendosi ai confini del mondo, perché ha seguitato a rispettare il senso del sacro in natura. Le direttrici appenniniche e alpestri così ricche di testimonianze cultuali confermano questa devozione e quanto l’inquietudine per la traversata di luoghi impervi riguardi indistintamente ogni classe sociale, compresi i funzionari di più alto livello da cui ci si sarebbe aspettati un atteggiamento più razionale e distaccato. A un graduale processo di statalizzazione e legalizzazione delle zone vallive, che avevano un’importanza strategica nella rete viaria dell’impero, continuava pertanto ad affiancarsi, anche a un livello politico-istituzionale, l’esigenza di una protezione sacra dai pericoli degli ambienti montani: insidie che potevano essere naturali o legate all’ostilità di chi abitava o a sua volta transitava in questi spazi. Un simile intreccio di interessi fu ben vistoso lungo la via ad Gallias: Augusto costituì dalla statio di ad Quintum (a Collegno, nelle vicinanze di Torino) al Mons Matrona, nell’arco di alcune decine di miglia cruciali per l’economia dell’intero pedemonte, un sistema di strutture sacrali, al cui interno ognuno poteva esprimere la propria pietas nei confronti della divinità che più aveva cara. Capolavoro di intelligenza politica e strumento nodale per la romanizzazione fra tarda repubblica e primo impero, lo straordinario processo di ordinamento amministrativo e sacrale delle vie di valico può dirsi una delle avventure più affascinanti e longeve dell’antichità, dove ataviche usanze e credenze s’incontrano con il bisogno di gettare ponti, di spingersi al di là, di offrire all’immaginazione, allo stupore e alla poesia un cammino nel mondo.    

Berg und Gebirge als poetisches Motiv bei Claudian

Libri e divinazioni da Finale Ligure a Vienna

Il fatto che molti luoghi nel ponente ligure trasmettano piuttosto intensamente la sensazione di una longeva e stratificata storia culturale, è qualcosa che posso testimoniare di persona e che segna in modo significativo l’incontro con queste realtà. Aggiungerei che l’idea di una simile densità emotiva lambisce il visitatore con sorprendente immediatezza e deriva a mio avviso da una singolare alleanza che qui si sperimenta fra realtà e surrealtà; si ha come l’impressione di toccare con mano qualche eco risalente da chissà quale lontananza. Mi spingo anche ad affermare che pagine luminose e fondamentali di molta poesia novecentesca non possono essere comprese se non si è trascorso del tempo proprio in simili località. È un tema a me caro e che ho portato all’attenzione in alcuni miei scritti. Non solo il più spesso citato Eugenio Montale, ma penso anche alla cosiddetta scuola di cantautori genovesi (la poesia-canzone), o a Paul Valéry. Sarà che sua madre Fanny Grassi era italiana, figlia del console italiano Giulio Grassi, originario di Genova, sarà l’influsso biologico e il legame affettivo ad aver contribuito alla sensibilità del poeta francese: è innegabile che certe sue immagini siano semplicemente e maestosamente liguri. I versi del Cimitero marino non si sarebbero depositati in me con altrettanta limpidezza, se non mi fossi fermata a Sanremo e non ne avessi visitato le intime e antiche sepolture a due passi dal litorale. E penso pure alla luce di Bordighera e ai suoi stessi sepolcri, quasi un monumentale giardino pensile ancora italiano ma per certi versi anche già francese.

Sezione dei tarocchi alla mostra
Calvino cantafavole, Genova, Palazzo Ducale
15 ottobre 2023 – 7 aprile 2024

Dunque, si va per immergersi nelle bellezze paesaggistiche e si scoprono personalità ingegnose che hanno animato e fatto la fortuna di molti abitati. Tornando a certi percorsi finalesi, occasione che di recente mi è stata offerta durante un mio passaggio alla mostra di Genova, Calvino cantafavole, ho avuto modo di recuperare la poesia di un cosmo sfaccettato e affascinante, venendo a conoscenza di aspetti di cui poco o nulla sapevo. Leggere infatti che proprio a Finale Ligure è nata la prima versione a stampa dei tarocchi, le carte del “gioco della vita” che tanta parte degli immaginari letterari hanno influenzato compreso quello calviniano, mi ha stimolata ad approfondire ulteriormente glorie e splendori del borgo. Del resto, la notizia del primato editoriale in una simile impresa non può lasciare indifferenti. Tanto da apparirmi come una sorta di crocevia universale, quasi che il gioco e la divinazione legati all’uso di queste singolarissime carte dipinte, fossero una metafora di tutte le arti e, in conseguenza, di tutte le possibili eccentricità riunite a tali latitudini. Ciò che ho scoperto non ha smentito la mia prima impressione.

Pannello esplicativo affisso nella sala dei tarocchi alla mostra Calvino cantafavole, Genova, Palazzo Ducale
15 ottobre 2023 – 7 aprile 2024.
Nell’ambito delle celebrazioni del centenario dello scrittore sanremese

Si è svelato un ritratto di cosmopoliti, bibliofili, esoteristi e astronomi che in una non ben precisata epoca installarono un primo rudimentale osservatorio sulle alture dell’entroterra. Un sito che dall’altopiano delle Manie al mare offre vedute spettacolari affiancate a un patrimonio artistico dal quale si evince una continuità territoriale rilevante in termini di presenze e memorabilia. Basti pensare che alcune grotte sovrastanti l’insediamento pare fossero occupate fin dal paleolitico.
In età moderna, fra i notabili e possidenti locali, salta agli occhi la vicenda di Alfonso II Del Carretto, marchese di Finale, dove nacque nel 1525 per poi morire a Vienna nel 1583. La singolarità dell’uomo non sta solo nell’aver saldato un pezzo di storia ligure su quella mitteleuropea, legandosi in particolare alla capitale asburgica cui riservò trasferte sempre più frequenti fino all’espatrio e alla richiesta d’aiuto presso l’imperatore a causa delle minacce subite dal suo potentato. Ma il personaggio è ancor più degno di nota per essere stato l’artefice di un’avventura sapienziale di grande rilievo, ossia la raccolta di un cospicuo fondo manoscritto che servì ad istituire una ricca e sorprendente biblioteca. Il progetto infatti è il riflesso degli orientamenti, dei gusti e delle intenzioni di un uomo consapevole dell’incertezza della propria condizione di semi-esule e quindi esule, che credeva di rimpatriare ma senza esserne sicuro. Ciò che comunque lo ha ispirato in tutte le sue acquisizioni è stata l’idea di raccogliere una documentazione d’uso per la famiglia e ancor più per il marchesato. In sostanza, un disegno lungimirante che aspirava a caratterizzarsi come opera pubblica. Lo studio filologico della nota che raccoglie gli acquisti librari del marchese, fonte preziosa del dipanarsi della sua attività, si deve ad Anna Giulia Cavagna; una recensione molto dettagliata di questa ricerca, che aiuta a comprenderne metodi e contenuti, è liberamente consultabile in rete.

Antiquariato a Finalborgo

Vengo infine all’osservatorio astronomico finalese. Fra le alture montagnose dell’immediato intorno paesano la ricognizione archeologica del bric di Pinarella (o Pianarella) davanti al già nominato altopiano delle Manie ha rivelato segreti straordinari che ci portano assai indietro nei secoli. Sebbene molte siano le difficoltà nella lettura di un’area così, dove il terreno carsico e l’azione fortemente dilavante della pioggia rendono ben ardue le ricostruzioni dei contesti, si è tuttavia riusciti ad avanzare delle ipotesi con qualche punto fermo. Complesso cerimoniale, sepolcrale nonché osservatorio astronomico fin dalla notte dei tempi lo studio del posizionamento delle pietre in situ ci parla di un luogo sacro, frequentato e riconosciuto come tale nel plurimillenario avvicendarsi della vita umana da queste parti.

Studio di archeoastronomia sul Bric di Pinarella (o Pianarella)

Tanto per non farsi mancare nulla Finale vanta anche un museo diffuso e un paio di anni fa è stata al centro di un’interessante iniziativa, volta a riscoprire la cultura dei tarocchi insieme all’associazione faentina “Le Tarot”, che ha collaborato alla realizzazione di una mostra ideata appositamente per valorizzare il borgo antico.

Le Manie da Finale Ligure
Plenilunio d’agosto a Finale Ligure

Fotografie di Claudia Ciardi ©


Bibliografia e documenti per approfondire:

CODEBÒ M., DE SANTIS H., PESCE G. 2011, L’osservatorio in
pietra di Bric Pianarella (SV)
, in “Astronomia culturale in Italia”,
Società Italiana di Archeoastronomia, Milano, pp. 177–185.
Stone Observatory/Academia.edu

Altre notizie riguardanti il sito di Pianarella qui: Due passi nel mistero. Studi e ricerche

Sulla mostra di Finalborgo dedicata alla storia dei tarocchi si veda l’articolo di Exibart: Tarocchi. Gioco, divinazione e magia (Oratorio dei Disciplinati, 2022)

Recensione della ricerca di Anna Giulia Cavagna_La biblioteca di Alfonso II Del Carretto marchese di Finale. Libri tra Vienna e la Liguria nel XVI secolo_Finale Ligure / Centro Storico del Finale, 2012

La Pietra del Finale e il museo diffuso

Storie d’arte e d’ispirazioni torinesi

Il capoluogo piemontese prosegue e incrementa un dialogo fra arti, creatività e poesia con iniziative capillari e diffuse. Proprio in questi giorni è arrivata anche la consacrazione sul «Financial Times» che premia il Piemonte come una delle compagini più dinamiche a livello europeo per strategia del territorio. Di sicuro la regione sta mettendo in campo tante energie e Torino è una fucina in cui confluiscono molti punti di vista, non necessariamente allineati o prevedibili. Già qualche anno fa alcuni media esteri, fra cui la CNN, invitavano a scoprire la capitale sabauda quale alternativa alle mete italiane tradizionalmente più conosciute e pubblicizzate, nell’intento di alleggerire i flussi turistici sempre e solo diretti verso gli stessi centri. In questi mesi ho avuto modo di confrontarmi con diversi progetti legati all’inclusività, alla valorizzazione del patrimonio culturale, alla creazione di modelli gestionali di comunità nelle province di montagna e nei tessuti urbani. Oltre ad aver seguito gli ultimi eventi organizzati nel circuito delle mostre d’arte e della divulgazione poetica, come quello di “Arte Città Amica” che mi ha coinvolta in prima persona, in occasione del ventennale della storica associazione torinese.

Luci d’artista a Torino

Desidero quindi segnalare il ciclo di esposizioni dedicate dall’Accademia Albertina alla propria collezione fotografica. Iniziato con “La fotografia e le arti” (ottobre 2023), si concluderà con gli “Orientalismi” il prossimo luglio. Per la prima volta una serie di documenti misconosciuti al pubblico escono dai caveau e sono visibili in Pinacoteca. L’Albertina è un luogo che tende a essere meno visitato tra i poli museali torinesi pur trattandosi di uno spazio estremamente meritevole, denso di memorie storiche per capire la città e avvicinarsi al suo passato-presente. È inoltre ripresa la tradizione di ricostruire le vicende di un’opera inedita nell’ambito del percorso tematico di volta in volta proposto. All’interno della sala dei cartoni gaudenziani, anche attraverso modalità interattive, riprende vita un quadro, un progetto in parte se non del tutto andato perso o della cui esistenza poco o nulla si sapeva.

*Depliant informativo dell’Accademia Albertina

Qualche giorno fa è stata poi inaugurata la personale del fotografo Michele Pellegrino nei locali di Camera. Un allestimento offerto come un’antologia da sfogliare, suddivisa in sezioni rappresentative dei suoi principali filoni di ricerca: Esodo. Storie di uomini e di montagne; Visages de la Contemplation; Scene di matrimonio; Le nitide vette; Langa. È il battesimo ufficiale fra i grandi autori italiani, culmine di un percorso che ha visto l’arte di Pellegrino protagonista di tante rassegne – ricordo sempre a Torino Persone presso la Fondazione Bottari Lattes – e così via nel resto del Piemonte e fra le pagine di altrettante intense pubblicazioni: gli ultimi cataloghi per Electa Prima che il tempo finisca e Io il covid e le nuvole, e ancora risalendo a ritroso i racconti fiabeschi di Il silenzio magico della montagna, Alta Langa. L’altra collina, Incanti ordinari. Perciò mi auguro che presto ci sia la volontà di replicare con un’iniziativa che magari dia spazio anche a un excursus dei libri a stampa che nel tempo hanno accompagnato il suo cammino fotografico.        

Michele Pellegrino_Allestimento per Camera Torino_Le nitide vette
Michele Pellegrino_Allestimento per Camera Torino_Le nitide vette_Peuterey

A chi voglia infine incontrare l’arte in un contesto autentico e confidenziale suggerisco una visita in Via Rubiana alla galleria di “Arte Città Amica”. Ringrazio Raffaella Spada per il tempo che mi ha dedicato, per gli incoraggiamenti e i consigli che mi ha dato sui materiali e le tecniche – in generale direi una lezione di vita –  e per gli artisti che mi ha presentato. Ispirazione principale di questo gruppo è il nesso che unisce segno pittorico e parola, al centro peraltro della mostra allestita questo mese e aspetto che considero centrale nella mia stessa indagine. Una bella serata trascorsa al riparo e al caldo, pure in senso emotivo, in una Torino ancora abbastanza infreddolita. Fra le stazioni di Racconigi, Rivoli e Monte Grappa è bello sapere che ci sia un rifugio così accogliente dove si aggirano presenze gentili, anche queste appartenenti a una storia torinese ben diversa dalle contrapposizioni e disattenzioni che purtroppo fin troppo spesso ci sono state riservate dagli ultimi anni.   

La Galleria di Via Rubiana
La mostra della Galleria di Via Rubiana

Le mie montagne per “Arte Città Amica”


Fotografie di Claudia Ciardi ©

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Cultura diffusa – Alla scoperta del Piemonte

Torino capitale della fotografia

Epica e incantesimi delle sirene

La sirena è per lo più associata a caratteristiche di perdizione. Il potere per cui maggiormente viene conosciuta è gettare nel turbamento chi la incontra, il che può significare anche la fine del malcapitato, inghiottito nel gorgo delle acque da dove la straordinaria creatura appare. Esseri simili popolano peraltro diverse tradizioni fiabesche. Celebri sono ad esempio le temibili Ondine o Nixe del folklore germanico, ninfe abitatrici dei corsi d’acqua dolce. Ma questa strana creatura marina non esercita un potere meramente negativo. La sua ambivalenza, incarnata per l’appunto dalle fattezze ibride – per metà donna e per l’altra metà pesce – la colloca in un limbo ancestrale che tuttavia riflette anche virtù positive. Sciogliere i nodi, pettinare le tempeste; non è un caso che il pettine sia uno degli oggetti che la identificano.    

Sirene suonatrici, miniatura tratta dal ‘Salterio della Regina Maria’ (1310-1320), British Library, Londra.

Dal latino tardo sirēna, classico sīrēn – pl.: sīrēnes, trascrizione del greco Σειρήν, Seirḗn – pl.: Σειρῆνες, Seirênes, nome dall’etimologia incerta, le ricostruzioni dei linguisti puntano a una radice indoeuropea “svar” che indicherebbe il canto, tratto principale con cui si fa riconoscere e che utilizza per attirare chi incontra. Proprio nel loro modo di cantare gli antichi greci ravvisavano simboli di sapienza e conoscenza. Dalle divinità acquatiche adorate dai Sumeri (Zagan o Dagan) e nell’antico Egitto (Nun e Naunet), dai culti neolitici della Dea Madre alle sirene di Ulisse (in questo caso metà donne e metà uccelli) per non dimenticare il “pesce umano” del folklore nipponico (detto Ningyo), il mito di misteriosi esseri che conservano alcuni tratti umani, abitanti della acque, accomuna tutti i popoli del pianeta.

Il vaso delle Sirene – Pittore delle Sirene. Arte greca, età arcaica: 480-470 a. C. Collocazione: British Museum, London
Note: Ceramica a figure rosse
Fonti letterarie classiche: Omero, Odissea, XII, 36-61

Va precisato che l’aspetto delle sirene muta dall’antichità al medioevo. Si potrebbe infatti restare alquanto spiazzati osservando un vaso greco – come ad esempio il celebre stamnos ispirato dall’episodio dell’Odissea, libro XII – che le ritrae simili a un incombente stormo di arpie, coperte di piume, dove nulla lascia intendere un’origine dal mondo acquatico. Secondo quanto depositato nella tradizione omerica, che dunque rispecchia qualcosa di ancor più lontano sul versante del tempo, si trattava infatti di essenze demoniache, al pari delle Keres e delle Erinni. La prima descrizione riconducibile al nostro immaginario è attestata non prima dell’VIII secolo d. C. nel Liber Monstrorum. Al contrario delle furie, che in epoca romana vennero designate con nomi propri, per le sirene non si ha notizia di identità specifiche. Soltanto in epoca tarda ci si imbatte in Partenope, morta suicida in mare per essere stata rifiutata da Ulisse; le onde la rigettano alla foce del Sebeto, dove in seguito nasce una città chiamata, appunto, Partenope e poi Neapolis (Napoli). Da quelle parti, sulla penisola sorrentina, sorgeva anche il Tempio delle Sirene. Tutto questo per ribadire ancora una volta che le avvenenti fanciulle con coda di pesce rese universalmente note da Andersen (la fiaba della sirenetta è del 1837) hanno origine solo nel primissimo medioevo, mentre nell’età antica gli unici con queste caratteristiche erano esseri maschili, i Tritoni.

I luoghi delle sirene. Incisioni e pitture sui temi del mare.
Di Mario Calandri (Autore), Edizioni Carte d’Arte, 1993.
Volume edito in occasione della mostra presso la Pinacoteca Provinciale di Bari, giugno 1993. Contributi critici di Lucio Barbera e Angelo Dragone. Tavole in bianco e nero e a colori. Bibliografia. 4to. pp. 88.

In epoca moderna, quella della sirena è una figura che si lega al patriziato veneto. Curiosamente la potente famiglia dei Corner (Cornaro) la adotta come suo simbolo. La nobildonna Caterina Cornaro, andata in sposa a Giacomo II di Lusignano, re di Cipro, volle infatti così ricordare le origini familiari del marito. Non solo evocazione isolana, cosa che si potrebbe immediatamente pensare, ma vera e propria citazione storica, in quanto alla fine del Trecento lo scrittore francese Jean D’Arras nella sua opera Histoire de Lusignan o Roman de Mélusine fece discendere la dinastia di origine francese dei Lusignano dall’azione della bellissima Melusina, creatura fantastica apparentata alle sirene.   

Sirena scolpita commissionata come simbolo nello stemma di famiglia da Caterina Cornaro. Museo Casa Giorgione – Castelfranco Veneto.
Fotografia di Claudia Ciardi ©

Dal romanticismo in avanti la rappresentazione delle sirene procede sulla base dei modelli dettati dallo studio dei patrimoni folklorici. La riscoperta dei cicli fiabeschi indirizza il nuovo gusto estetico, facendo registrare un contatto assolutamente peculiare nonché capillare fra testi scritti e dimensione figurativa.

Giulio Aristide Sartorio, Sirena o abisso verde (dettaglio). Galleria d’arte moderna Ricci Oddi, Piacenza.
Fotografia di Claudia Ciardi ©
Galleria Ricci Oddi, Piacenza. Vista della sala dedicata alla pittura ligure e piemontese.
Le XXII sale della Ricci Oddi costituiscono uno dei luoghi più belli d’Italia dove ammirare l’arte moderna.
Il genio e la sensibilità del donatore hanno permesso di raccogliere una delle collezioni più affascinanti sul territorio nazionale dedicata ai temi della pittura italiana ottocentesca e novecentesca.
Fotografia di Claudia Ciardi ©

Le relazioni magiche

Storie di precognizioni, magia, sensismo e spiritismo che si insinuano fino agli Venti del Novecento e oltre, con tanto di processi alle streghe. Nell’Inghilterra della seconda guerra mondiale, mentre il paese era scosso da emergenze ben più pressanti, andò in scena l’ultima accusa di stregoneria a carico di una medium, tale Helen Duncan. Non si vedeva una cosa del genere dal lontano 1727, tanto che perfino Winston Churchill si sentì in dovere di intervenire, liquidando l’intera faccenda come «una sciocchezza obsoleta».

Il procedimento a carico della Duncan fu un caso eclatante di quello che potremmo definire un clima di sospetto, senz’altro esacerbato dai disagi e dalle paure causati dagli eventi bellici, che comportò il ristabilirsi di reazioni credute sepolte da tempo. Clamorosamente, in questo caso, il pubblicò proseguì a sostenere la donna. Mentre in passato le cosiddette streghe erano per lo più oggetto di stigma e isolamento da parte della comunità, con il risvolto violento degli interrogatori e delle esecuzioni – complice anche il terrore seminato dalle autorità inquisitrici – qui assistiamo a un atteggiamento contrario. Anche dopo la condanna, questa eccentrica figura in possesso di facoltà medianiche inspiegabili agli occhi degli esperti incaricati di studiarle, continuò a riscuotere attestazioni di stima e vicinanza. A differenza di altri casi coevi in cui la scoperta di tentativi di truffa e raggiri di varia entità decretò la fine della fortuna dello spiritista di turno, la Duncan a guerra conclusa proseguì la sua attività senza aver smarrito è il caso di dire “la magia” con il suo auditorio. Il popolo ha un incomprensibile istinto per certi fenomeni? Sì, e spesso infatti finisce per lasciarsi trarre in inganno. Ci sono moltissime testimonianze di conclamata ciarlataneria, proprio nel periodo che si inaugura con la seconda metà dell’Ottocento, quando questo genere di pratiche raggiunse il culmine della popolarità. Due fatti storici ne determinarono un’affermazione tanto vasta, almeno nel mondo occidentale. La guerra civile americana e successivamente la prima guerra mondiale che, mentre seminava il suo velenoso epilogo, attraverso l’epidemia di influenza spagnola, rinfocolò un interesse per gli “esperti” del dialogo con i defunti che si credeva ormai al tramonto. In altre parole, le profonde crisi che scossero a più riprese la società statunitense e quelle del vecchio continente, provocarono il diffondersi di un’ampia fiducia nei poteri paranormali e nei suoi praticanti. Ne ho parlato anche nel mio libro su Thomas Mann, protagonista d’eccezione di un ciclo di sedute spiritiche a Monaco di Baviera, nella Germania di fine 1922 e inizio 1923 alle prese con gli effetti di una galoppante inflazione.

Un esempio di fotografia spiritica che si ingegnava di catturare i fantasmi sulla pellicola. // Fonte: National Geographic

La molla che più ha fatto scattare l’impulso a partecipare a queste attività era la promessa di poter tornare a parlare con un parente morto in guerra. Il francese Allan Kardec ideò una teoria dello spiritismo incentrata sulla reincarnazione, espressa nel suo volume Il libro degli spiriti, dato alle stampe nel 1857. L’opera ebbe larga diffusione, incontrando un vasto favore di pubblico anche al di fuori dell’Europa, in particolare in Sudamerica e Russia.

Il tema dell’evocazione degli spiriti e del comunicare con l’aldilà – anche nota come negromanzia – ha del resto origini antiche. Sanzionata e bollata dai culti ufficiali, in particolare quelli monoteisti della tradizione giudaico-cristiana, di diffondere aspetti oscuri e pericolosi nella collettività, l’Antico Testamento ne fa esplicito divieto. Che l’uomo in ogni epoca abbia espresso sotto varie forme il bisogno di essere confortato e confermato nella sua presenza terrena, e lo abbia fatto cercando una comunicazione sensoriale extra terrena o aliena (in senso etimologico e parapsichico), è un fenomeno che fa parte della sua lunga avventura come essere pensante.
Nei suoi Dialoghi delfici, Plutarco ci ricorda un mondo perduto fatto di anime vaticinanti e sensibilità oracolari incalzate dai nuovi corsi storici.

«C’è una storia, caro Terenzio Prisco, in cui si narra che delle aquile, oppure dei cigni, partiti dai limiti estremi della terra e diretti al suo centro, si ritrovarono nello stesso posto, a Pito, dov’è il cosiddetto “ombelico”. In seguito, Epimenide di Festo volle chiedere ragione di questo racconto al dio, ma non ottenne che un responso ambiguo e incomprensibile. Allora, si dice, esclamò:

Né della terra esiste un centro, né del mare; e se esiste, è noto agli dèi, ma celato agli uomini.

A buon diritto il dio aveva respinto la sua domanda, poiché egli pretendeva di esaminare la bontà di un’antica tradizione toccandola col dito, come si fa coi dipinti».

Plutarco, 1 409E, Il tramonto degli oracoli in Dialoghi delfici, introduzione di Dario Del Corno, Adelphi edizioni, Milano 1983 [ristampe].

E non potrebbero dirsi, secoli dopo, i dialoghi leopardiani incastonati nelle sue Operette morali vergate fra il 1824 e il 1832, meditazioni dell’umano troppo umano alla ricerca di un pretesto, di una leva per trascendersi e sottrarsi alle false promesse di un progresso definito a sproposito? Giacomo Leopardi, che fu un incompreso nella sua epoca, almeno fra la stragrande maggioranza della gente a lui coeva, nella schiera di una intellettualità che si consegnava con entusiasmo alle miracolistiche aspettative delle magnifiche sorti e progressive, è il testimone di una filosofia poetica della crisi, di un’inquietudine dubitante che l’essere umano non dovrebbe mai disconoscere. È su un altro fronte una sorta di oracolista in un mondo che non segue più alcuna voce profetizzante, tranne quella della tecnica – il nuovo oracolo che a tutto avrebbe rimediato.

Per concludere, dai poeti fraintesi torniamo ai nostri sensitivi perseguitati. Senza dubbio si trattò in molti casi di persone che al fine di sbarcare il lunario o per balzare velocemente agli onori della cronaca si inventarono questo bizzarro mestiere, arrogandosi poteri paranormali. Di fatto praticamente tutte queste figure, prima o poi, incapparono in qualche guaio con la giustizia. Nel migliore dei casi furono tenute d’occhio. Sarà forse, lo ripeto, al di là del controllo esercitato dallo Stato “normalizzatore”, che questo atteggiamento riflette anche un’attitudine tutta moderna di sanzionare la sensibilità? Di ravvisare sospetti in chiunque mostrasse atteggiamenti non contemplati dalle regole – esplicite o implicite – normalizzanti emozioni, reazioni, modi d’espressione codificati dalle società scese dalle culle post rivoluzionarie? La Duncan andò a processo perché non si riuscì a spiegare come avesse potuto detenere delle informazioni riservate, cui non erano al corrente neppure i vertici dell’intelligence, segreti militari rivelati nel corso delle sue sedute, quando chiamava a sé gli spiriti. Sospettata di spionaggio – ma la verità è che ci si trovava veramente a fronteggiare qualcosa di misterioso – subì una sorta di carcerazione preventiva. Si stava preparando lo sbarco in Normandia e nulla poteva essere lasciato al caso; neppure che una medium particolarmente abile spifferasse in pubblico per bocca delle anime morte qualche dettaglio dell’operazione.

Molti sono gli atteggiamenti, ad oggi, che tendono a isolare certe persone ritenute forse ipersensibili o poco comprese. Si direbbero odierni meccanismi censori, tentazioni di un ritorno alla caccia alle streghe, riflettenti la brutalità dei pregiudizi e delle azioni del passato.

Una divertentissima foto delle “streghe di Norfolk”, documento di un’usanza davvero singolare nell’Inghilterra degli anni Venti. // Dalla pagina fb curata da “Le Signore dell’Arte”.

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Inés Antón, Le origini dello spiritismo tra medium, messaggi dall’aldilà e scetticismo, «National Geographic Italia», 18 ottobre 2023

Parissa Djangi, L’ultima strega della Gran Bretagna è vissuta nel XX secolo, «National Geographic Italia», 19 ottobre 2023

Guardare la Gorgone

Angelo Tonelli, Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica, Feltrinelli, Milano 2021

Complessità culturale nella vita liquida

Automazione, informatizzazione e passaggio al digitale – della pubblica amministrazione, dei patrimoni culturali e di moltissimi settori in contatto diretto o ravvicinato con la nostra quotidianità – stanno determinando mutamenti estesi e profondi nei modi di relazionarci, di intendere il lavoro, scisso fra alcune possibilità aperte dalle nuove tecnologie e la perdita di occupazione, e dunque una non aggirabile condizione di incertezza, precarietà economica e conseguente disagio. 
Quando il direttore del Museo egizio di Torino ha di recente prospettato la realtà di un museo gratuito, in molti si sono detti contrari e contrariati. Ma l’atteggiamento di chi sembrava abbracciare chissà quali rivoluzioni in questo stesso settore, per poi mostrarsi fra i più reazionari, ormai non mi sorprende più. La gratuità non deve spaventarci, non va vissuta come un incubo ingovernabile. Semmai bisogna iniziare a ragionare su come intervenire per destinare risorse laddove altre se ne possono liberare; il dono dell’automazione e dell’utilizzo delle intelligenze artificiali – purché sia un uso controllato e indirizzato dall’essere umano – necessita di una governance, che va pensata per tempo, e che ovviamente non potrà non valersi di qualità creative, di fantasia e in buona sostanza d’immaginazione. Temere una deriva di sregolatezza rispondendo con chiusure irrazionali, significa rinunciare a essere interpreti di quanto sta accadendo. Mentre è importante coglierne l’alto potenziale di libertà a un preciso e più saldo livello di responsabilizzazione.
Il cambiamento è già in mezzo a noi, tant’è vero che ne stiamo osservando rovesci e problematiche. Esserne osservatori passivi, vuol dire desistere dal comprenderlo e volgerlo – almeno provarci – in situazioni vantaggiose. Quello che ha affermato il direttore Christian Greco solleva pertanto una questione di enorme attualità, che coinvolge l’impostazione politica, che quindi si riflette su una serie di altri orientamenti e scelte. Una questione strutturale, di metodo, direi. Nei miei articoli ne parlo da diverso tempo e, lo ammetto, anche forse in alcune forme piuttosto immature quando si ragionava sui primi modelli di reddito di cittadinanza o universale. È un argomento irritante per alcuni, lo capisco, ma non è evitabile. L’estrema esasperata condizionalità con cui il lavoro appare e scompare, e aggiungo anche la sensazione che i modelli e i contenuti formativi siano sempre non dico un passo indietro, ma un centinaio, rispetto alla velocità di quel che ci costringe di continuo a ripensarci, non permettono tentennamenti al riguardo.

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Non è un caso, per fare un esempio in linea con queste urgenze, che proprio nell’ambito del dibattito culturale – almeno fra soggetti realmente e autenticamente in campo per trovare soluzioni e un po’ meno preoccupati dagli avanzamenti e riposizionamenti delle proprie carriere – sia molto sentito il tema della riconoscibilità delle professioni artistiche e, più ingenerale, dell’inclusività delle diverse figure operanti a vario titolo in tale settore. E ancora, fra i vari rilievi emersi ad esempio durante la conferenza di “Minicifre 2023” tenuta a Roma lo scorso 6 dicembre, si è ribadita l’importanza di incrementare osservatori aggregati del territorio per leggere, elaborare e armonizzare al meglio i dati della cultura. Trattandosi infatti di un mondo multidimensionale, con molti attori, dove peraltro l’intervento politico relativo ad alcune aree sembra incerto, prima della lettura statistica, ovverosia dei consumi, occorrerebbe tener presente la pratica culturale (o esperienza culturale), cioè il coinvolgimento, il tempo dedicato dal cittadino alla cultura. In concreto, seguendo quanto detto in questa occasione dalla professoressa Annalisa Cicerchia, economista dell’Università di Tor Vergata, più che misurare gli ingressi nei musei, come ci si ostina a fare, sarebbe opportuno misurare il tempo trascorso da una persona in un museo. Dunque tenere in mano il metro della qualità di una visita, che comprende un insieme organico di fattori, non solo l’entrata-uscita da un luogo ma cosa quel luogo è in grado di trasmetterci (e cosa può cambiare dentro di noi) durante e dopo il nostro percorso.
Come correlato si rimanda ai tracciati esperienziali dell’immersività che negli ultimi anni, specialmente nel periodo della pandemia, hanno contribuito e stanno contribuendo alle maggiori e più articolate considerazioni sul comunicarsi dell’arte, sui nodi psicologici della multisensorialità quando incontriamo (e attraversiamo) gli oggetti d’arte.

Minicifre_Roma_6 dicembre 2023

A monte di tutto si pone è chiaro un richiamo all’etica. In sintesi, le pubblicistiche possono aiutare un po’ ma bisogna che poggino su basi solide, su contenuti. Se la pubblicistica arriva a oscurare i contenuti, quando non a calpestarli, è solo un clamore fine a stesso, incomprensibile e controproducente. E uno spreco di denaro pubblico. Con la crisi economica e con i danni aggiuntivi causati da eventi atmosferici aggressivi che impattano su infrastrutture mal costruite, già discutibili e precedentemente discusse, certe propagande e manie di protagonismo meritano un po’ più di una riflessione. In questo scenario liquido, secondo le penetranti letture di Zygmunt Bauman, dove pochi personaggi alla sommità della piramide dimostrano adattabilità, velocità e un impassibile e divino distacco verso chi non ha gli strumenti per navigare e avere successo in queste condizioni – tuttavia non potranno che essere pochi i beneficiari della liquidità, perché come spiega Bauman un simile status genera appunto una struttura piramidale – sperimentiamo in pieno un deficit di rispetto in ogni sfera dell’attività umana. L’insofferenza – o incapacità – al prendere impegno con l’altro, la sensazione di essere sempre spinti via, di non potersi né volersi soffermare su qualcuno o qualcosa mette in crisi ogni minima forma o propensione solidale. Ciò proprio mentre le architetture della coesione sociale – nella forma ultima di questa selettiva piramide – vacillano. Ma che la piramide liquida non poggi su basi ferme è un bene, ed è una fatalità attesa. 

Zygmunt Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, Bari 2006
(e ristampe)

Vorrei concludere sottolineando che nel corso di quest’anno – nonostante il carico di pesantezze che certi piramidali prigionieri di vecchi schemi hanno inteso gettarmi addosso – per fortuna ho avuto modo di gestire attività appaganti e parlare e confrontarmi con decine di persone, di età e percorsi professionali assai diversi. Incontrate in viaggio, durante gli eventi culturali cui ho presenziato o in fila da qualche parte. È stata un’esperienza di altissimo valore, direi di grande arricchimento personale. Perché mi sono sempre capitati interlocutori “svincolati”, con idee trasversali e traverse, insomma delle belle menti. Al contrario, devo dire, non si sarebbero avvicinati o non ci sarebbe venuta voglia di parlare. La chimica dei rabdomanti. Tutto ha contribuito agli spunti e agli stimoli che mi hanno avvicinata e per così dire “consacrata” in via definitiva a certi temi che ho sviluppato nei più recenti lavori di scrittura, nelle mie collaborazioni d’arte e in ciò che desidero coltivare nella mia ricerca.

Poesia, amore e pazienza. Sono i principi chiave del prendersi cura. Cura del sé, degli altri e del patrimonio culturale (materiale e immateriale). // Artslife su Linkedin.

Per approfondire:

Fuori rotta. Gli itinerari silenziosi della cultura

Libro dipinto

Quello di libro dipinto è un concetto dalla doppia valenza. Lo si può intendere sia come libro decorato, arricchito di immagini e abbellito da fregi e disegni sulla copertina, utilizzata come vera e propria tavola da pittura. Sia come oggetto rappresentato in un quadro, simbolo sacro e profano, testimonianza della posizione culturale della persona ritratta o dei gusti letterari del pittore.

Una lunga storia che affonda le sue radici nella paziente cura dei miniaturisti, con alcune rappresentazioni che potevano occupare anche una pagina intera, composte con pigmenti assai preziosi, o se vogliamo ancor prima, nel mondo antico. Già alcuni papiri sono infatti opere di straordinario pregio, non solo per la bellezza calligrafica. Nei rotoli egizi campeggiano figure a colori eseguite con una minuzia straordinaria come anche in certi formulari magici del periodo ellenistico, dove affiorano esempi illustrati degli strumenti necessari a un incantesimo o su come preparare un simulacro per affatturare qualcuno.

Ma ricordiamo anche nei codici bizantini alcune segnature di rimando agli scolii marginali (asterischi come stelle marine o fiori incantati) laddove gli scolii stessi si presentano talora come “predelle narrative” appese al corpus della scrittura su colonna. Insomma, da questo punto di vista, se guardato nell’insieme, il libro fin dall’età antica o tardoantica è una potente opera grafica in cui il supporto che lo compone, la scrittura e gli abbellimenti che interessano i materiali e le parti testuali concorrono a creare un vero e proprio pezzo d’arte.

Dorsi dipinti su libri del 1750_Biblioteca del Museo del Castello di Praga
Miniatura capolavoro di Jean Fouquet. // Dalla pagina fb di “Osservatorio libri. Quotazioni”

L’incremento del tasso di alfabetizzazione e l’avvento di nuove tecnologie segnano nel XIX secolo l’aspetto e la destinazione del libro che da oggetto confezionato a mano posseduto per lo più dagli aristocratici nelle loro biblioteche private, diviene un prodotto di massa. In tale differente contesto la copertina assume un’ulteriore importanza: non più solo una protezione funzionale per le pagine, ma un elemento chiave, un vero e proprio display attraverso cui comunicare il contenuto e incentivarne così la vendita. Prima di allora – tranne alcune creazioni uniche e personalizzate (ad esempio le copertine ricamate per le biblioteche dei privati) – erano per lo più semplici rilegature in pelle. A partire dagli anni Venti del Novecento, con l’affermarsi della rilegatura industriale, i vecchi rivestimenti in pelle lasciano il posto a nuove tipologie in stoffa che, oltre a essere economiche, divengono anche stampabili. Nel corso dei decenni è stata impiegata un’ampia gamma di tecniche a stampa delle copertine: dalla goffratura (calandratura che permette l’incisione di un disegno semplice sul tessuto) alla doratura alla litografia a più colori. Si apre dunque uno spazio artistico completamente inatteso dove si sono potuti inserire illustratori e designer, producendo una varietà di copertine dal gusto estremamente eclettico, tanto quanto la miriade di contenuti che presentavano. Dagli anni Venti circa, la sovracoperta di carta, molto diffusa anche nei tascabili, che in precedenza serviva semplicemente a proteggere la rilegatura dell’editore, inizia a sfoggiare dei disegni. Non si può far a meno di notare che diversamente dal prodotto odierno, altamente standardizzato, subito riconoscibile nell’appartenenza alle diverse collane editoriali per la sua elevata (e in molti casi fredda) serialità, qui siamo piuttosto in presenza, almeno fino ai primi del Novecento, di produzioni ispirate a un certo artigianato.
L’articolo di «The public domain review» (il collegamento qua in fondo), dal quale provengono alcune delle notizie riportate, presenta un’interessantissima galleria di rilegature disegnate nel secolo della nuova editoria, sebbene non possano dirsi ancora imprese editoriali così come noi le intendiamo. È più che evidente il valore artistico aggiunto che recano queste copertine.

Woman and her Wits_Book cover, 1899
Die Milchstrasse_Leipzig_Johann Ambrosius Barth, 1908

Ma vi è pure un’altra forma decorativa del libro, conosciuta come fore-edge painting. Si tratta della illustrazione riservata al taglio anteriore. Stringendo il blocco di pagine fra le dita, affiora un’immagine che può essere d’invenzione o riprodurre un’opera d’arte nota o ancora richiamare una scena o un soggetto del contenuto (soprattutto nel caso dei romanzi popolari). Questo modo di vivacizzare e mettere in risalto il materiale a stampa fu molto popolare tra Settecento e Novecento. Nei primissimi casi si trattava di stemmi araldici per lo più realizzati in oro. Tale tecnica raggiunse il suo culmine di popolarità e maestria agli inizi del XX secolo, tant’è vero che la maggior parte degli esemplari sopravvissuti risale proprio a questo periodo. Talvolta due diverse varianti vengono dipinte su entrambi i lati delle pagine e ciascuna appare quando il blocco viene allargato da un lato o da quello opposto.
Le biblioteche americane ospitano diverse collezioni di libri rari attestanti quest’arte davvero particolare.

Esempio di fore-edge painting_Miami University Libraries
Frontespizio illustrato del libro dedicato alla Sibilla Cusiana [Cumana]_1870. // L’immaginario sibillino dai libri ai dipinti.
Ritratto di donna con stilo e tavoletta cerata, noto anche come ritratto di Saffo.
I dipinti pompeiani delle fanciulle che impugnano lo stilo, oggi conservati presso il Museo Archeologico di Napoli, sono assai noti. Qui non si tratta di donne rappresentate insieme ai libri ma “fotografate” nelle loro attività di studio (che presupponevano il possesso di libri).
Una è identificata come la moglie di Paquio Proculo e l’altra (qui sopra) associata alla figura della poetessa greca Saffo.

Il libro dipinto, lo si diceva prima, è infine il libro che viene dipinto ossia che entra nell’opera di un pittore. Da oggetto costoso destinato a pochi eletti a prodotto facilmente replicabile, in grandi tirature, grazie al diffondersi della stampa meccanica, gli artisti hanno registrato nel tempo aspetti, mode, riti sociali legati alla presenza dei libri nei più vari contesti. Se nella pittura antica e medievale è in simbiosi con la rappresentazione di scene che rimandano alla sfera educativa, ad esempio dei giovani, o come simbolo religioso che identifica santi, profeti, martiri, col passaggio alla modernità il libro si apre sempre più a status symbol. Di un’aristocrazia che si fa ritrarre nelle proprie biblioteche attraverso cui intende affermare il proprio potere e prestigio, e in seguito come segno di una crescente indipendenza e ascesa delle classi subalterne che in tal modo celebrano il proprio accesso alla cultura. Nel caso dei ritratti e autoritratti femminili il libro entra come precipuo elemento di riscatto sociale, in una condizione in cui la donna, ancora fino all’Ottocento, era interdetta dai corsi accademici e, pur vantando condizioni economiche agiate, non poteva accedere alle medesime opportunità formative degli uomini. L’immagine della Sibilla barocca e tardobarocca condensa simili sentimenti e propensioni, laddove l’aura sacrale del personaggio e la presenza del libro per la divinazione demarcano più latamente la sfera della femminilità, le sue aspettative e finanche un elogio incipiente delle proprie capacità di autoaffermazione. Se in quest’epoca si tratta ancora per lo più del punto di vista di un esecutore maschile – ma quello del pittore è un occhio comunque svincolato dai crismi della società – è innegabile il graduale affioramento di una traccia nell’arte che fa del libro in mani femminili un oggetto di ascesa e riscatto.

Polittico del Maestro delle Murge_Pinacoteca Corrado Giaquinto di Bari_Tre figure di Santi con i libri sacri.
Fotografia di Claudia Ciardi ©
Artemisia Gentileschi inedita_A lungo attribuita al fiorentino Carlo Dolci, la Maddalena penitente è stata uno degli “Old Masters” in vendita a Colonia, presso la casa d’aste Van Ham (lotto del giugno 2021).
Sibilla del Domenichino_1617 circa_Galleria Borghese_opera attualmente non esposta. // Questa Sibilla sui generis in quanto ritratta insieme a uno spartito e a una viola – attributi musicali che di solito non si associano a tale figura mitologica – sembra intenta a cantare.
Vincent van Gogh_Natura morta con statuetta di gesso_Parigi_fine 1887_Dettaglio_Dalla mostra a Palazzo Bonaparte, Roma, 2022-2023.
Fotografia di Claudia Ciardi ©


Per approfondire:

The Art of Book Covers (1820-1914)

Fore-edge painting. Dipinti nascosti nei libri

I libri nell’arte (Glicine Associazione)

Di foglie, Sibille e arte profetica

Scatti di poesia X (Bari 2023)

Bari Vecchia_Plenilunio

Un decennale impegnativo per una mostra fotoletteraria che è tra i fiori all’occhiello della cultura di Puglia. E non solo. Perché in questo cantiere sono confluite voci da tutta Italia, che negli anni si sono alternate e ispirate, in un insieme polifonico di rara intensità nel panorama dell’arte contemporanea.
Creatura, e mi piace dire anche creazione, di Lino Angiuli, festeggia qui un compleanno importante. Summa di tutto il lavoro compiuto fino a questo punto, viene anche a incrociarsi, in virtù di certe sorprendenti traiettorie della numerologia, al centenario della nascita di Italo Calvino. Aggiungo che la benedizione dei numeri – chiamatela cabala o come volete – non si manifesta a caso, ma solo in presenza di intenti sinceri. E guai tradirla!

Dalla prima edizione, commovente lode ai grandi poeti pugliesi novecenteschi, cantori troppo affrettatamente dimenticati, quando non vergognosamente ignorati – cito su tutti, a titolo d’esempio, Vittorio Bodini ma come tacere di Raffaele Carrieri, di Rosella Mancini e di tante altre e altri – il progetto si è rafforzato nelle collaborazioni, trovando slanci sempre nuovi e approdando, nelle ultime tre rassegne, all’omaggio alla triade Dante, Ghirri e Calvino. Vertice e foce in un dialogo fra immagine e parola che ha dimostrato longevità, forte radicamento e capacità attrattiva. 
La riproposta ciclica di una formula all’apparenza (solo all’apparenza) semplice, ha dimostrato che le idee limpide, sorrette dalla chiarezza d’intenti, generano nella pratica un’inaspettata densità di stimoli e contatti.

Essenziale e minimale anche nell’allestimento. Un incrocio di telai bianchi, strutture lievissime che sorreggono fotografie e poesie. Epigrafi fluttuanti, ritratti di paesaggi e di persone riflesse nei paesaggi, affioramenti ed evocazioni.
  
L’inaugurazione della mostra è stata anche l’occasione per riflettere sul comunicarsi della cultura e della creatività oggi. In un tempo di dispersione e distrazione, il lavoro dei creativi è elemento prezioso che rientra nelle buone pratiche del vivere sociale, anzi ne è il maggior collante e aggregatore. Così Lea Durante, nel soffermarsi sulla multiforme disseminazione suscitata proprio dal confronto con l’opera di Calvino, così anche Lino Angiuli nel sottolineare come la conflittualità indotta, voluta che investe le nostre vite, condizionandole, sia qualcosa da fronteggiare e respingere senza tentennamenti, evidenziando il fatto che l’arte sia lo strumento elettivo per disinnescarne il funesto portato. A chiudere, Daniele Pegorari in un discorso letterario e analitico sullo sguardo, ha ribadito l’importanza dell’osservazione, quale preludio e al contempo presa di coscienza nell’esercizio di riflessione, dunque non due momenti distaccati ma atti concettualmente unisoni e altrettanto necessari al compimento della ricerca.

Allestimento di Scatti di poesia_X_Centro Polifunzionale degli studenti (Uniba)_ingresso libero_fino al 10 dicembre 2023

Infine, non poteva che essere celebrata a Bari l’unione ideale fra gli immaginari del sanremese Italo Calvino e le poetiche del visibile invisibile. Una così peculiare e inedita ricomposizione inversa delle immagini calviniane come sottolinea Vincenzo Velati nel catalogo che spiega il progetto, in uno scritto dall’emblematico titolo “Caleidoscopio”, non poteva che essere a Bari; la confluenza fra questi fiumi selvaggi e ancora in larga parte inesplorati di immagini in parole e viceversa. 
Città metafisica per eccellenza, che nelle sere autunnali, alle soglie dell’inverno, scioglie i propri chiavistelli, rompe i sigilli a dimensioni insospettabili, dove le geometrie gotiche abbracciano visioni già appartenute ai sogni, dove a ogni angolo di strada splende una madonnina illuminata, drappeggiata come nell’antichità le antiche mani vestivano gli idoli di casa. Gesti millenari che si ripetono uguali nei vicoli delle città del Sud. Dove tutto, infine, nonostante tutto, profuma ancora di poesia.

Fotografie dell’allestimento_Scatti di poesia_X_Bari 2023
Grazie anche al dottor Francesco Giannoccaro, presente all’inaugurazione di Scatti X, tra i collaboratori delle precedenti edizioni, per aver condiviso con me questa sua opera, un volume elegante e prezioso, testimonianza fotografica e letteraria del tempo sospeso della pandemia. Quelle molteplici incomprensioni e forzature che ancora fatichiamo a spiegare, che tuttora sotto diversi aspetti ci condizionano, e che hanno così a fondo sconvolto la nostra quotidianità, sono affidate a una serie di quartine in cui Francesco ha voluto “fotografare” una memoria sfuggente, bifronte, che vive il paradosso di negarsi per potersi pienamente raccogliere.
Bari_di notte

* Fotografie di Claudia Ciardi ©
(E stanotte una parte di me, il mio nome, sarà in mezzo allo scampanio di San Nicola).

* La mostra “Scatti di poesia” è allestita al Centro polifunzionale degli studenti (ex Palazzo delle poste), in Piazza Cesare Battisti 1, a Bari. Visitabile dalle 9:00 alle 19:00, a ingresso libero, fino al 10 dicembre 2023.

* Il catalogo edito per il decennale raccoglie testi e immagini delle mostre allestite dal 2014 al 2023. “Scatti di poesia 2014-2023”, Quorum edizioni, Bari 2023.

* Ricordo dell’inaugurazione

Echidne, Meduse, monili – Dal mito a El Greco

Un immaginario complesso e longevo che attinge ed elabora i propri connotati nel periodo arcaico – con probabili ascendenze micenee – insinuandosi in quello classico. La Grecia delle Gorgoni e delle Erinni, come anche di molte altre creature notturne e ctonie di dubbia e problematica interpretazione, smentisce la predominante apollinea in questa cultura e non solo. Ne configura una luminosità enigmatica, sempre oscillante fra inquietudine e catarsi. Una condizione sospesa che l’essere umano è chiamato ad attraversare, in quanto parte del suo stesso dissidio. Retaggio che ha esercitato il suo fascino nei secoli e nelle arti, trovando diverse vie di rappresentazione oltre a uno straordinario vitalismo nella cultura popolare. Si dice che i ritmi della taranta, area di pertinenza magnogreca, siano il riflesso di questa medesima duplicità. La mano che percuote il tamburello richiama all’ordine cosmico, peraltro con un gesto di lieve rotazione e contrazione dal palmo alle dita a indicare raccoglimento (ritorno), continuamente messo in discussione dal vibrare dei sonagli, moto sussultorio, tellurico che ricorda lo strisciare o il destarsi delle serpi nella chioma di Medusa, l’unica mortale fra le figlie di Forco.

Dettaglio del busto di Medusa di Gian Lorenzo Bernini_1644-1648 // Probabilmente lo scultore intese immortalarvi l’espressione della sua amante Costanza Piccolomini. Una Medusa dunque più che umana

Volto della paura e della seduzione ha ispirato creazioni vertiginose nella statuaria, in pittura e nell’alta gioielleria. Bulgari, proprio in queste settimane, ha dedicato una mostra alle sue collezioni, per celebrare i settantacinque anni del marchio, scegliendo Milano come unica tappa mondiale di questa storia mitologica e artistica. Al centro l’iconografia del serpente, simbolo di mimesis, adattamento, rinascita e rigenerazione. Un brand di lusso che ha scelto di raccontarsi in modo non convenzionale, cercando un’ampia apertura verso il pubblico e mostrando l’apporto delle nuove tecnologie nel lavoro dei propri creatori, incluso il confronto con l’intelligenza artificiale (Dazio di Levante in Piazza Sempione, fino al 19 novembre, con ingresso gratuito). Questo singolare intreccio dal mito antico, fin dalle sue radici egizie, alla contemporaneità ha dato luogo a un evento ricercato quanto inedito, una tipologia di mostra con esperienze immersive che permettono di toccare letteralmente con mano la narrazione.

Bulgari_75 Infinite Tales_Un particolare dall’allestimento (ottobre-novembre 2023)

Sempre a Milano, spostandoci fra le sale di Palazzo Reale, nell’ambito della mostra in corso su El Greco, ci troviamo a tu per tu con la sua impressionante versione del Laocoonte. Il celebre gruppo del sacerdote troiano che va incontro alla morte con i propri figli, avvinti da serpenti marini, mentre un’indecifrabile quanto impassibile Toledo, città dalle atmosfere ermetiche, quasi una Siena spagnola, campeggia in una delle sue tele che suscitano forse i maggiori interrogativi. Incompiuta, unica opera di soggetto mitologico per questo eccentrico artista, sappiamo che la tenne con sé fino alla morte. In un ulteriore raffronto sulla storia di questo motivo la riproduzione in gesso, proveniente dalla gipsoteca dell’Università di Pisa, dell’originale ellenistico custodito nei Musei Vaticani, alla base dell’onda lunga di imitazioni in scultura e pittura dal Rinascimento in poi (si pensi a quello altrettanto celebre eseguito in marmo da Baccio Bandinelli nel 1520, alle Gallerie degli Uffizi).

El Greco, Laocoonte, 1610-1614, Milano – Palazzo Reale (2023)
Riproduzione in gesso del gruppo statuario del Laocoonte dalla Gipsoteca e Antiquarium dell’Università di Pisa // Prestito per la mostra di El Greco a Milano (2023)

Simbolismo del sacro e del profano, enigmaticità, magnetismo sprigionato da fascino e inquietudine. Filiazioni divine e caratteri rituali, talora difficilmente ricostruibili, in bilico fra contatti figurativi, diffusione in diversi ambiti sociali, ricorrenza o sovrapposizione di narrative. Ad esempio, la prossimità di Gorgoni ed Erinni, liquidata come improbabile da Vernant (si veda il suo saggio Figure, idoli e maschere, in particolare le pagine 75-102, dove descrive diffusamente l’Erinni Tilfussa) e che io ho provato invece ad ipotizzare fin dal mio lavoro di tesi.   

Richard Buxton_La Grecia dell’immaginario_I contesti della mitologia_capitolo 1, “Dalla culla”

Un discorso affascinante che si muove su diversi piani della ricerca, oltre a costituire una materia di per sé molto coinvolgente per chi la affronta, da studioso o da semplice appassionato. Un racconto che s’innova, un’espressione culturale dinamica e versatile che aggiunge mutazione a mutazione e che pure nell’atto stesso di rappresentarsi espande i confini dell’immaginario di riferimento. Qualcosa che per il fatto stesso di originare dagli strati più profondi dell’interiorità umana, non smette di destare la nostra attenzione e interpellarci. Una capacità generativa fuori dal comune, che di sicuro attiene al mito stesso, ma che al contempo lo trascende, modernizzandolo, favorendone l’adattabilità a contesti mutevoli e storicamente diversi.

Dalla mostra di Bulgari (Milano 2023)_Dettaglio della Gorgone

Sul simbolismo del serpente_dall’allestimento di Bulgari (Milano 2023)


* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Si veda anche:

Guardare la Gorgone

Chi ha visto l’elefante bianco?

Era tradizione in Siam che il re offrisse un elefante bianco ai membri dell’élite decaduti dal suo favore. Non si trattava di un regalo, piuttosto di una punizione; diversamente dagli altri animali, infatti, il dono era sacro, andava mantenuto e dunque non poteva essere utilizzato per lavorare. L’espressione inglese “white elephant”, che in questa pratica affonda le sue radici, viene a designare un progetto senza sbocchi, qualcosa che si pensava funzionale e che poi finisce per impaludarsi, a causa di un vizio nel progetto stesso o del difetto di volontà – interessato o semplicemente frutto di inadeguatezza – di chi avrebbe dovuto farsene carico.  

La locuzione omologa in italiano sarebbe “cattedrale nel deserto”, coniata nel 1958 da don Luigi Sturzo, in riferimento a tutti quei cosiddetti grandi progetti (improduttivi) pensati per le zone depresse d’Italia. In generale, la nostra lingua utilizza un’espressione che ha perfino dei risvolti poetici per tratteggiare una realtà di degrado sulla quale purtroppo il bel paese non lesina quanto a esempi.

Le cattedrali nel deserto sono certamente fisiche ma ancor più mentali. Anzi, diciamo che in generale nascono nel pensiero. Spesso queste idee sono azzardate e sbilanciate fin dalla prima concezione. Edifici dalle faraoniche pretese, immaginati in spazi privi o quasi di collegamenti, oppure grandi strutture polifunzionali su cui si ripongono troppe ottimistiche speranze, quanto a prospettive di occupazione e sviluppo del territorio. Il caso più recente lo stiamo riscontrando in Cina dove intere città, sorte in fretta per assorbire e urbanizzare i flussi migratori interni dalle campagne, alla prima seria battuta di arresto di un ciclo economico favorevole pur sospinto da molte contraddizioni, rischiano di restare vuote. Il che mette anche in discussione l’intero modello, perché forse non si tratta neppure di una crisi sistemica ma di un problema di portata ben più grande.

Air & Space Museum – Provocation, state of mind or physical truth?

A tutto ciò si aggiunga che pure molti spazi già organizzati corrono il pericolo di una desertificazione. I musei, i centri espositivi e culturali sono fra questi. Creature dall’anima poliedrica – se solo si volesse veramente e compiutamente farla emergere con il concorso di professionalità non inquadrate in schemi ormai inadatti – depositarie di un altissimo potenziale pronto a trasformarsi in qualcosa in grado di catalizzare forze economiche latenti. È peraltro l’oggetto del mio ultimo saggio Cultura e creatività per un’altra economia («Incroci», n. 47, giugno 2023). La riduzione degli orari di apertura, la mancanza di servizi adeguati che aiutino a raggiungere certi luoghi incentivando quindi la permanenza negli stessi, costituiscono problemi strutturali che non possono essere aggirati se si vuole puntare a un vero rinnovamento.

Analizzando alcune situazioni diciamo di “isolamento culturale” emergono diverse criticità, frutto di premesse diverse ma con un minimo comune denominatore; il fallimento degli intenti iniziali, il deteriorarsi di un sito, quando non si arrivi a constatarne un’assoluta decadenza. Fra i report che mi è capitato di leggere ci sono il mancato decollo del Museo di Archeologia Subacquea a Grado e non pochi clamorosi flop romani: la vela di Calatrava, le Torri dell’EUR, gli ex mercati generali a Ostiense, la ex fabbrica di penicillina LEO. In quest’ultimo caso si tratta di uno dei numerosi resti della deindustrializzazione (ricordiamo pure Torino per l’incidenza molto alta di problematiche di questo tipo). Ancora, i problemi di raggiungibilità di Capodimonte e i suoi ben poco sfolgoranti dintorni – si rimanda a un articolo di Gennaro Di Biase uscito su «Il Mattino» alla fine del 2021, che con piglio anche ironico descrive una situazione di estremo contrasto fra l’interno del polo museale e la trascuratezza delle immediate vicinanze.

Cito a chiudere l’interporto di Bologna da poco inaugurato come museo a cielo aperto della street art. Un progetto molto interessante, che fa il punto e accende i riflettori su una delle espressioni più controverse – ma anche affascinanti – dell’arte contemporanea. Mutatis mutandis quelle che si candidano come gigantografie o sinopie dell’oggi, necessitano chiaramente di spazi molto estesi. Se da una parte si è messo a terra qualcosa che intende valorizzare un’area altrimenti difficile da “interpretare”, il rischio è che sia poco vissuta.

Abbiamo già avuto modo di discutere come l’idea di patrimonio culturale sia estremamente variegata e necessariamente antropizzata. Fruizione, condivisione, tutela fondano le loro radici nella comunità e a regole comunitarie si appellano. Beni e persone, oggetti e immaginari collettivi, materiale e immateriale si confrontano nella mutua ispirazione di strategie volte sia a conservare che a divulgare. Strategie per il territorio a presidio e cura. Diviene quindi centrale il ruolo dell’educazione, dal momento che solo lo studio approfondito dei propri segni identitari e al contempo della diversità culturale porta alla comprensione reciproca, anche nell’ottica della risoluzione e prevenzione dei conflitti. Materia che, alla luce degli attuali scenari di guerra, dovrebbe ancor più spronarci a riflettere.

Infine il pericolo della polarizzazione fra aree attrattive (e ormai sommerse dallo tsunami turistico) che continuano a magnetizzare su di sé tutta l’attenzione e la mancanza di valide opzioni. Lo sviluppo territoriale di cui sopra è da intendersi in senso culturale e sociale. In molti casi, anche nelle storie di maggior successo, l’effetto controproducente è che i flussi turistici restino in buona sostanza estranei al territorio. Privilegiare una logica commerciale, anziché economica, significa sottrarsi a una programmazione lunga, che in una società complessa costituisce l’unica via per generare risposte efficaci e risultati produttivi.

Le strategie di comunicazione sono pure molto importanti purché responsabili e ispirate da una solida visione emotiva e analitica.
Communication strategies are also very important as long as they are responsible and inspired by a sound emotional and analytical vision.


Si veda anche:

Musei, oltre alle classifiche dei visitatori bisogna pensare a strategie per il territorio – Stefano Monti su «Archeoreporter», 13 gennaio 2023