Chi ha visto l’elefante bianco?

Era tradizione in Siam che il re offrisse un elefante bianco ai membri dell’élite decaduti dal suo favore. Non si trattava di un regalo, piuttosto di una punizione; diversamente dagli altri animali, infatti, il dono era sacro, andava mantenuto e dunque non poteva essere utilizzato per lavorare. L’espressione inglese “white elephant”, che in questa pratica affonda le sue radici, viene a designare un progetto senza sbocchi, qualcosa che si pensava funzionale e che poi finisce per impaludarsi, a causa di un vizio nel progetto stesso o del difetto di volontà – interessato o semplicemente frutto di inadeguatezza – di chi avrebbe dovuto farsene carico.  

La locuzione omologa in italiano sarebbe “cattedrale nel deserto”, coniata nel 1958 da don Luigi Sturzo, in riferimento a tutti quei cosiddetti grandi progetti (improduttivi) pensati per le zone depresse d’Italia. In generale, la nostra lingua utilizza un’espressione che ha perfino dei risvolti poetici per tratteggiare una realtà di degrado sulla quale purtroppo il bel paese non lesina quanto a esempi.

Le cattedrali nel deserto sono certamente fisiche ma ancor più mentali. Anzi, diciamo che in generale nascono nel pensiero. Spesso queste idee sono azzardate e sbilanciate fin dalla prima concezione. Edifici dalle faraoniche pretese, immaginati in spazi privi o quasi di collegamenti, oppure grandi strutture polifunzionali su cui si ripongono troppe ottimistiche speranze, quanto a prospettive di occupazione e sviluppo del territorio. Il caso più recente lo stiamo riscontrando in Cina dove intere città, sorte in fretta per assorbire e urbanizzare i flussi migratori interni dalle campagne, alla prima seria battuta di arresto di un ciclo economico favorevole pur sospinto da molte contraddizioni, rischiano di restare vuote. Il che mette anche in discussione l’intero modello, perché forse non si tratta neppure di una crisi sistemica ma di un problema di portata ben più grande.

Air & Space Museum – Provocation, state of mind or physical truth?

A tutto ciò si aggiunga che pure molti spazi già organizzati corrono il pericolo di una desertificazione. I musei, i centri espositivi e culturali sono fra questi. Creature dall’anima poliedrica – se solo si volesse veramente e compiutamente farla emergere con il concorso di professionalità non inquadrate in schemi ormai inadatti – depositarie di un altissimo potenziale pronto a trasformarsi in qualcosa in grado di catalizzare forze economiche latenti. È peraltro l’oggetto del mio ultimo saggio Cultura e creatività per un’altra economia («Incroci», n. 47, giugno 2023). La riduzione degli orari di apertura, la mancanza di servizi adeguati che aiutino a raggiungere certi luoghi incentivando quindi la permanenza negli stessi, costituiscono problemi strutturali che non possono essere aggirati se si vuole puntare a un vero rinnovamento.

Analizzando alcune situazioni diciamo di “isolamento culturale” emergono diverse criticità, frutto di premesse diverse ma con un minimo comune denominatore; il fallimento degli intenti iniziali, il deteriorarsi di un sito, quando non si arrivi a constatarne un’assoluta decadenza. Fra i report che mi è capitato di leggere ci sono il mancato decollo del Museo di Archeologia Subacquea a Grado e non pochi clamorosi flop romani: la vela di Calatrava, le Torri dell’EUR, gli ex mercati generali a Ostiense, la ex fabbrica di penicillina LEO. In quest’ultimo caso si tratta di uno dei numerosi resti della deindustrializzazione (ricordiamo pure Torino per l’incidenza molto alta di problematiche di questo tipo). Ancora, i problemi di raggiungibilità di Capodimonte e i suoi ben poco sfolgoranti dintorni – si rimanda a un articolo di Gennaro Di Biase uscito su «Il Mattino» alla fine del 2021, che con piglio anche ironico descrive una situazione di estremo contrasto fra l’interno del polo museale e la trascuratezza delle immediate vicinanze.

Cito a chiudere l’interporto di Bologna da poco inaugurato come museo a cielo aperto della street art. Un progetto molto interessante, che fa il punto e accende i riflettori su una delle espressioni più controverse – ma anche affascinanti – dell’arte contemporanea. Mutatis mutandis quelle che si candidano come gigantografie o sinopie dell’oggi, necessitano chiaramente di spazi molto estesi. Se da una parte si è messo a terra qualcosa che intende valorizzare un’area altrimenti difficile da “interpretare”, il rischio è che sia poco vissuta.

Abbiamo già avuto modo di discutere come l’idea di patrimonio culturale sia estremamente variegata e necessariamente antropizzata. Fruizione, condivisione, tutela fondano le loro radici nella comunità e a regole comunitarie si appellano. Beni e persone, oggetti e immaginari collettivi, materiale e immateriale si confrontano nella mutua ispirazione di strategie volte sia a conservare che a divulgare. Strategie per il territorio a presidio e cura. Diviene quindi centrale il ruolo dell’educazione, dal momento che solo lo studio approfondito dei propri segni identitari e al contempo della diversità culturale porta alla comprensione reciproca, anche nell’ottica della risoluzione e prevenzione dei conflitti. Materia che, alla luce degli attuali scenari di guerra, dovrebbe ancor più spronarci a riflettere.

Infine il pericolo della polarizzazione fra aree attrattive (e ormai sommerse dallo tsunami turistico) che continuano a magnetizzare su di sé tutta l’attenzione e la mancanza di valide opzioni. Lo sviluppo territoriale di cui sopra è da intendersi in senso culturale e sociale. In molti casi, anche nelle storie di maggior successo, l’effetto controproducente è che i flussi turistici restino in buona sostanza estranei al territorio. Privilegiare una logica commerciale, anziché economica, significa sottrarsi a una programmazione lunga, che in una società complessa costituisce l’unica via per generare risposte efficaci e risultati produttivi.

Le strategie di comunicazione sono pure molto importanti purché responsabili e ispirate da una solida visione emotiva e analitica.
Communication strategies are also very important as long as they are responsible and inspired by a sound emotional and analytical vision.


Si veda anche:

Musei, oltre alle classifiche dei visitatori bisogna pensare a strategie per il territorio – Stefano Monti su «Archeoreporter», 13 gennaio 2023

Patrimonio culturale, patrimonio umano

Roma_Palazzo Altemps_Medusa Ludovisi_ o Erinni dormiente_Schlafende Erinnye (sleeping Erinys)

Preservare, tramandare, studiare il patrimonio culturale non può essere cosa disgiunta dall’attenzione verso il patrimonio umano. Fin troppo spesso nel nostro ragionare, infatti, tendiamo a percepire la cultura come qualcosa di separato, un prodotto slegato e, per così dire, senza filiazione alcuna dalle attività umane. È evidente l’enormità di questo controsenso. La cultura è creatività storicizzata, diventata cioè patrimonio storico. Tale processo, ossia l’assunzione del suo portato nel tempo, implica certo una presa di distanza ma ciò non deve significare disconoscimento delle fonti, negazione di chi vi presiede. È un fatto che la tensione creativa sia una caratteristica propria degli esseri umani, forse perfino la più spiccata, e come tale non possa considerarsi una semplice manifestazione di ciò che ha prodotto, al di là di coloro nei quali l’idea è nata. Sarebbe questa, lo ripetiamo, un’astrazione priva di fondamento.

Ho appena letto un’interessante riflessione condivisa sui social: «What makes humans different than other living beings? I think that it’s our amazing way of expressing ourselves through art. [Cosa distingue gli esseri umani dalle altre forme viventi? Io credo il nostro sorprendente modo di esprimere noi stessi attraverso l’arte]».

È pur vero che, al contrario, la creatività si pone a un grado non storicizzato, dunque non è detto che generi cultura. Ma ne è in ogni caso l’indispensabile premessa e medium. E inoltre, il suo centro propulsore risiede in larga parte nell’esperienza emotiva, forse ben più che nella sfera cognitiva. Il grado emozionale è quello che permette di creare e comprendere, anche aggirando eventuali lacune conoscitive. L’intelligenza ispirata dagli aspetti sensibili aiuta quindi la regolazione delle nostre emozioni, consentendo decisioni più affinate e pensieri più chiari prima di agire. La Conferenza dell’Unesco sull’educazione artistica che si è svolta a Lisbona nel 2006 ha lanciato l’allarme circa il divario crescente fra i processi cognitivi ed emotivi «che conduce ad un maggiore focus, nei contesti di apprendimento, sullo sviluppo delle competenze cognitive rispetto al valore riconosciuto alla sfera emotiva. Questa enfasi sugli aspetti cognitivi, a discapito della sfera emotiva, è causa del declino morale della società. Il processo emotivo è parte del decision making e agisce come vettore di azioni e di idee, favorendo la riflessione e il giudizio. Un senso morale profondo, che si pone alle radici della cittadinanza, richiede il coinvolgimento emotivo. L’educazione artistica incoraggiando lo sviluppo emotivo, può promuovere un equilibrio migliore tra lo sviluppo cognitivo ed emotivo, e dunque supportare la costruzione di una cultura di pace».

Dal post pubblicato sul profilo linkedin di Chris D. Connors sull’intelligenza emotiva

Mi è già capitato di accennare al fatto che qualsiasi siano i mezzi di cui disponiamo, l’incontro con un’opera d’arte produrrà comunque uno scambio, anche se non siamo completamente edotti sul suo autore e sulle circostanze storiche dalle quali è scaturita – a corollario di ciò non va dimenticato il grado di acquisizione culturale dell’individuo in una data epoca; tranne periodi che possono essere classificati come di “regresso”, si può affermare che la storia umana tende a un innalzamento del proprio livello di cognizione. Gli strumenti su cui contiamo oggi possono risultare dispersivi o causare perdita di concentrazione ma anche offrirci canali per comunicare e assimilare delle nozioni velocemente. Ciò è innegabile e contribuisce alla formazione individuale, pur lo ripetiamo con alcuni limiti e contraddizioni. Nell’esperienza di quel che abbiamo intorno, nella sua lettura, non è un dato trascurabile.

Dunque, vediamo come l’interesse per il patrimonio culturale sia strettamente intrecciato alle vicende del cosiddetto patrimonio umano, alla sfera della sensibilità e a un impulso creativo che nella comunità deputata alla fruizione e conservazione trova il suo inderogabile compendio. Con la ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia nel 2020 si è inteso per l’appunto ufficializzare il ruolo nello sviluppo umano rivestito dal patrimonio culturale (nelle sue ulteriori declinazioni di patrimonio naturale e intangibile, ossia legato alla comunità sociale incaricata della sua valorizzazione). Per sviluppo s’intende l’elevarsi della qualità di vita e il diritto garantito all’accesso al patrimonio.

Molte delle riflessioni fatte sin qui sono raccolte in due interessanti capitoli del Dossier pubblicato dal Centro di Ateneo per i diritti umani (Università di Padova) a cura di Desirée Campagna.

Per concludere sui temi della tutela e dell’educazione. Proprio in questi giorni sta tornando alla ribalta la questione etica delle collezioni museali laddove risultino acquisite in conseguenza di saccheggi durante la guerra o nel periodo coloniale. Ci si interroga su quando e come restituire e si stanno producendo mostre che vogliono sensibilizzare il pubblico su tali problemi. Anche in un simile caso si toccano ambiti che non sono strettamente legati agli oggetti del patrimonio ma coinvolgono la storia di una comunità, i suoi valori e tradizioni di riferimento, gli ordinamenti su cui si fonda.

Learn about diversity_Da un articolo collettivo su Linkedin a cui ho partecipato_in evidenza il parallelo fra patrimonio culturale e patrimonio umano

L’arte scuote punti nodali nell’ambito del diritto e gli artisti assurgono a human rights defenders, trasmettitori di quell’immaginazione necessaria ai cambiamenti della società.

Immersioni nel centro Italia (Cortona, Foiano, Foligno)

Per la mia pausa estiva quest’anno ho privilegiato gli itinerari del centro Italia dalla Valdichiana alla provincia di Foligno. L’estremità della Toscana interna e l’Umbria con il doppio anniversario di Signorelli e Perugino, cui vanno aggiunti i percorsi per l’anno robbiano, si sono posti come fulcro di iniziative di grande spessore, tuttora in corso. È stata l’occasione per tornare a esplorare, a passo lento, spazi e tracciati culturali che non sembrano esaurirsi in una sola visita. Anzi, sono proprio queste iniziative a creare i presupposti e incentivare un avvicinamento ai luoghi più responsabile, obbligando a soste che possano dirsi veramente tali. Come già ho avuto modo di dire, nell’incontro con un’opera d’arte, come con qualcuno del resto – perché si tratta di sensibilità affatto dissimili – il dove avvenga non è un fattore secondario. Aver visto Crivelli per la prima volta proprio nelle sue amate terre adottive marchigiane si è rivelata dal mio punto di vista un’esperienza di vera contemplazione, per così dire; certamente diversa se la prima scoperta fosse avvenuta altrove. Che poi si abbia una conoscenza pregressa e un legame intellettivo, mentale, con un artista è altra cosa ancora. Ma l’incontro, lo ripeto, lo stare in piedi davanti a un suo lavoro, che poi è stare secoli dopo davanti alle mani che lì hanno lavorato, sentire perfino quella carnalità dell’autore, incide profondamente sul tipo di consapevolezza che sviluppiamo. Il che attiene anche e soprattutto, lo dico di nuovo, alla nostra emotività. Conseguentemente è chiaro che non vi sia un modo unico e univoco di fruire la cultura. Chi dichiara che si passa in fretta davanti ai nostri capolavori senza capire nulla, enuncia una verità solo parziale. Sulla fretta, ha ragione in pieno – d’altronde se non si danno strumenti anche economici alle persone per fermarsi di più sarà difficile invertire questa tendenza. Sull’incoscienza starei attento, perché il rischio è divulgare una visione elitaria che inficia le reali possibilità di apertura e condivisione del nostro patrimonio. Ci sono gradi diversi di conoscere e sentire. Se anche sono totalmente a digiuno riguardo la storia di un capolavoro, il poterlo incontrare e soffermarmi lì nei pressi, mi innalzerà comunque. Ne ho parlato in uno dei miei ultimi saggi pubblicati sulla rivista «Erba d’Arno», in cui sono tornata a esplorare un tema che ho molto a cuore e che definisco “la taumaturgia dell’arte”. Tornerò quindi a rifletterci descrivendo il rito collettivo che si è tenuto in Piazza dei Miracoli il 9 agosto scorso, per il via alle celebrazioni della Torre pendente. Questo evento è stato infatti una summa di quanto espresso fin qui, di tutte le mie ricerche e convinzioni maturate finora, una grande lezione antropologica di cosa significhi l’accesso simultaneo gratuito e in piena libertà a monumenti e musei. Per inciso ci tengo a ribadire che in 180 km, la distanza da Pisa ad Arezzo, per coloro che su questa rotta hanno navigato in una settimana di pieno agosto, è andato in scena uno spettacolo incomparabile. Un’immersione nella bellezza che io credo non abbia avuto eguali al mondo.

Valga come ulteriore annotazione, a conferma, la piccolissima ma straordinaria mostra dedicata a luglio a Margarito d’Arezzo e le aperture in notturna del Cassero e del relativo polo museale a Castiglion fiorentino. Gioielli, come gioelli sono talune esposizioni minimali o minimaliste che anche adesso si stanno tenendo in tutta la penisola e che forse ci fanno scoprire una dimensione differente, più raccolta, meno dispersiva da cui avvicinare e sentire l’arte (a titolo d’esempio si rimanda a Bernini protagonista a Cellatica in Franciacorta fino al 29 ottobre).

Bottega di Luca Signorelli _MAEC – Cortona

Epicentri di storia e fascino mai tramontato. Le terre etrusche che spaziano dalla costa tirrenica alla Maremma primitiva fino in Valdichiana, per restare in area toscana, sono capaci di sprigionare intatta la loro profonda essenza. La mostra di Signorelli a Cortona è il punctum originis per risalire all’incredibile carriera di questo maestro. Oltre alle due sale in cui sono allestite opere provenienti anche dall’estero, insieme alla minuziosa e interessante ricostruzione della Pala di Matelica, il tutto introdotto da un documentario che aiuta ad abbracciare le coordinate spazio-temporali di una fastosa epoca della pittura dove ben si evidenzia pure il ruolo chiave di Foiano, si fanno largo i capolavori del MAEC che ospita, fra gli altri, diversi quadri della cosiddetta “bottega di Signorelli”. Nonché la tappa al diocesano e la chiesa di San Domenico, banco di prova delle abilità dello stesso Signorelli (la pala della Madonna col bambino), di Beato Angelico (L’Annunciazione) e Niccolò di Martino con il suo polittico.

Niccolò di Martino – Polittico
Chiesa di San Domenico, Cortona

A Foiano si è già accennato. Questo affascinante paese dei silenzi, distante una quarantina di minuti da Arezzo, dalle vorticose strutture in cotto che che hanno il loro cardine nella spettacolare Collegiata, è la quinta di una mostra diffusa dedicata alla maestria dei della Robbia. Un’idea ben concepita, in linea peraltro con le tendenze che vanno affermandosi sulla necessità di diversificare e decentrare i flussi turistici. E nell’aretino ciò ha i suoi effetti, perché siamo in territori dove fortunatamente le ripercussioni più deleterie dell’assalto non si vedono. Non in ultima analisi il motivo sta nei costi: queste valli non sono affatto per tutti e il mordi e fuggi, date le distanze e le poche infrastrutture, impraticabile; il che in tal caso non è un discorso dai risvolti elitari ma di semplice sopravvivenza e conservazione.

Percorsi robbiani a Foiano della Chiana
Madonna della cintola

Il progetto e le iniziative dell’anno robbiano

Infine la provincia folignate, questa sconosciuta propaggine dell’Umbria profonda. Si esce dal territorio di Cortona, seguendo la direttrice del Trasimeno e si avanza di un bel pezzo oltre Perugia. Il centro storico di Foligno è qualcosa di fuori dal tempo, una scheggia uscita dalla fucina dei Titani fra rugose colline che sembrano onde immobilizzate da un incantesimo. Il museo diocesano è semplicemente uno scrigno con alcune sculture lignee policrome di scuola locale che lasciano a bocca a aperta. Devo dire che questa piacevole esperienza mi si è poi protratta a Firenze. È stato come chiudersi una porta alle spalle per riaprirla settimane dopo sulla medesima stanza. All’inizio del percorso del Bargello, appena ho messo i piedi nella prima sala, mi si è presentata una Madonna dipinta che tanto mi ha ricordato quella osservata per una mezz’ora buona a Foligno. E infatti anche questa è di scuola umbra (umilmente oserei dire di maestranze folignati).

Madonna in trono col bambino
Scultura policroma in legno di noce
inizi del XIII secolo
Museo diocesano di Foligno
Madonna con bambino
Legno dipinto_Scultore umbro_1300-1310
Museo del Bargello_Firenze

Le “relazioni meravigliose” in cui mi sono imbattuta quest’anno, in non pochi casi alla Mrs. Magoo, cioè come l’alter ego femminile di quel signore che cammina sopra il vuoto senza cadere né provare paura dal momento che non se ne accorge, mi hanno fatto sentire fortunata. Era davvero impensabile, è davvero impensabile eppure accade; non lo cerco e accade. Stando ad Antonio Machado “el camino se hace caminando”, e io posso dire di aver camminato molto. Per il resto, alla vita di una persona, al fiorire della sua personalità, si devono dare le condizioni, non è qualcosa di già fatto e già scritto ma è questione di opportunità, di intenzioni e sguardi che si schiudono su ciascuno di noi. Mentre si finisce, oggi particolarmente, per considerare gli esseri umani come già fatti. Pur essendo questo un palese controsenso, perché si è dentro un collettivo, un organismo che ha necessità di svilupparsi nelle sue diverse estensioni. Ad ogni modo quello che io ho schiuso da sola, almeno per questa parte, mi dice della bontà di tutto quanto finora mi si è offerto.  

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Marius Ernest Sabino – Tanagra e art déco

La scarsità di notizie biografiche e bibliografiche, in italiano specialmente, su Marius Ernest Sabino (1878-1961), che come il cognome fa intendere proprio origini italiane aveva, mi lascia piuttosto sorpresa. Sono giunta sulle sue tracce per l’interesse in me suscitato dalle statuette di Tanagra. A dire il vero non immaginavo di incrociare un così raffinato maestro del vetro, che fra gli anni Venti e Trenta ha espanso i commerci delle sue creazioni fino al Medio Oriente.

Il cosiddetto “modello Tanagra”, riconducibile alla foggia delle piccole statue greche di terracotta rinvenute nell’omonimo demo ellenico, influenzò molto velocemente l’immaginario artistico occidentale. Quest’anno mi è capitato di scriverne in più occasioni, e la scoperta dei lavori di Sabino non è che una piacevole conferma di un radicamento che ha centro soprattutto a Parigi. Il Louvre, infatti, con lungimirante intuizione, a differenza dell’Italia, comprese subito il rilievo della scoperta accaparrandosi un buon numero di originali greci.

In quanto artigiano del vetro e designer, Sabino può dirsi un interprete assai particolare  dell’immaginario antico da lui fatto rivivere in opere sognanti e lievissime. Complici le trasparenze dettate dalla scelta del materiale – per lo più vetro – insieme alla ricerca degli effetti cromatici, tutti a tinte tenui (azzurro e giallo con esiti verde acqua e, quando il caso, ricercati effetti opacizzanti). Non solo Tanagra, ma anche manufatti che sembrano richiamare idoli e amuleti egizi, presenze cristalline e diafane che sovrappongono le suggestioni arcaiche o classiche alle cesellature dell’art nouveau e dell’art déco.  

Figure in vetro fra cui soggetti egiziani, Venere di Milo, due piccole Veneri di Milo, Madonna (figura che chiude a sinistra la serie di tre in primo piano)

Imprenditore e artista il suo lavoro ha influenzato l’arte vetraria moderna. Fra le due guerre, la sua tecnica del vetro modellato a compressione fu una delle migliori messe a punto in quel periodo. Insignito di numerosi premi e riconoscimenti in Europa, ottenne anche la massima onorificenza francese, la Legion d’Onore, per il suo contributo all’arte e all’industria.

Originario di Acireale in Sicilia, approdò in Francia all’età di quattro anni. A Parigi studiò scultura del legno, seguendo le orme del padre. Successivamente seguì i corsi all’École Nationale des Arts Decoratifs et de Beaux Arts di Parigi. Affascinato dalla diffusione dell’elettricità, sostituì i suoi primi modelli di lampadari lignei con pezzi in cui il vetro divenne l’elemento principale di propagazione della luce.
Nel 1925 brevettò una sua formula chimica (a base di arsenico!) per il vetro opalescente. Il risultato è che in condizioni di scarsa illuminazione il vetro appare spesso bianco o bluastro come il ghiaccio di un ghiacciaio. Molti pezzi assumono un sottile colore dorato di un’inusuale brillantezza, quasi una magia.

Tanagra – Donna con veli (Dal catalogo di Sabino del 1930-1931)

Dal 1914 lavorò con un vetraio di Romilly-sur-Andelle, aprendo quindi dopo la guerra una bottega-laboratorio in proprio a Noisy-le-Sec con grandi magazzini nel quartiere del Marais a Parigi.

Il 1925, anno del celebre brevetto, fu pure il più fruttuoso per lui, presenziando all’Esposizione Internazionale di Arti Decorative di Parigi.

Il successo dei suoi lampadari coincide con il movimento dell’architettura dell’epoca incentrata sull’elemento luminoso, tanto che Sabino fu anche richiesto per creare l’illuminazione decorativa per i transatlantici. Aprì nuovi punti vendita ad Algeri, Orano, Tunisi e Costantinopoli. Nel 1935, la sua celebrità lo portò a ricevere l’incarico di creare tutte le lampade e i lampadari elettrici per il palazzo dello Scià di Persia.

L’idolo – Scultura in vetro montata su lampada

Durante la seconda guerra mondiale i tedeschi fecero chiudere i suoi stabilimenti e negozi. Con la ripresa del dopoguerra affidò le sue attività e i modelli creati alle mani dei propri direttori commerciali, non potendo più seguire direttamente il lavoro a causa di una malattia. La vita, anche quella che riesce a schiudersi e realizzarsi al meglio e con soddisfazione, è fatta di apici. Quello di Sabino si era evidentemente celebrato prima della grande deflagrazione degli anni Quaranta. Tuttavia l’impresa da lui fondata andò avanti per qualche tempo attraverso i curatori designati dopo la sua morte, dal 1961 fino al 1975. Il suo delicato mondo creativo, nutrito di estetiche colte e gentili, ci sorprende ancora oggi come una fortunata apparizione.

Le quattro ballerine (1927)

Raro vaso in corno sfaccettato appoggiato su un tacco; la decorazione del titolo è in rilievo e scomposta su ogni lato. Prova in vetro opalescente stampato. Senza segno. Altezza 24,5 cm

Si rimanda anche ai seguenti articoli:

Le signore di Tanagra

L’arte e l’archetipo

L’arte e l’archetipo

Tanagra in Toscana

Archetipo, forma primitiva, radice, matrice, primo volto. Creare è attingere al momento originale, chinarsi alla fonte dell’immaginario collettivo e berne le larve che vi affiorano. Dell’evocazione di questa delicatissima corrente, una sorta di flusso che compenetra chi si appresta all’opera e che si è soliti definire genericamente ispirazione, ho tentato una lettura in alcune mie pagine di recente pubblicazione.

La parola, derivante dal greco ἀρχέτυπον, assume in italiano quattro significati diversi che coprono altrettanti ambiti disciplinari: tecnico-artistico (da notare come la parola greca τέχνη congiunga le due sfere cognitive), filosofico, psicologico, filologico.

Così ci si riferisce al primo esemplare, il modello di un’opera cui altre simili e successive si orienteranno. Quindi nella filosofia, d’indirizzo platonico in particolare, il concetto di idee archetipiche rimanda all’essenza delle cose sensibili. In ambito psicologico, secondo le teorie di C. G. Jung (1875-1961), l’archetipo è l’immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, la quale sussume tutte le esperienze dell’umanità e della vita animale che l’ha preceduta, alimentando gli elementi simbolici delle favole, delle leggende e dei sogni. Infine, in filologia, si è soliti definire archetipo il manoscritto non noto ma ricostruibile con maggiore o minor sicurezza attraverso il confronto dei manoscritti pervenuti, da cui questi deriverebbero secondo i rapporti di dipendenza configurati nello stemma codicum, o albero genealogico. Ad esempio, non possediamo l’originale della Divina Commedia di Dante Alighieri – uno dei più clamorosi archetipi mancanti, rovello e passione per molti studiosi – ma talvolta la vicenda familiare dei codici pone in evidenza che l’archetipo stesso sia una chimera. Ossia nella genesi di un testo pare siano entrati in circolazione, fin dall’inizio, esemplari paralleli che rendono vana la ricerca di un solo capostipite.
Tale declinazione filologica è d’uso anche nell’archeologia e nella storia dell’arte: si dirà, statua che riproduce l’archetipo di Lisippo.

Il mio articolo per «Erba d’Arno» (quaderni 171-172), rivista pubblicata con il contributo della CR Firenze, indaga i nessi fra queste discipline, esplorando in che modo le arti e le diverse sfumature linguistiche di archetipo influiscano sia sulle realizzazioni creative sia sui meccanismi di fruizione delle opere stesse.

Accenniamo anche brevemente alla cosiddetta contaminazione fra le arti, come nel caso della poesia, della pittura e scultura. I rapporti e le influenze linguistiche fra Dante e Giotto, quindi i componimenti in versi di Michelangelo Buonarroti che hanno ispirato generazioni di artisti italiani e stranieri, fino all’età moderna, tra cui ad esempio gli espressionisti tedeschi.

«L’entusiasmo che si accompagna a certi ritrovamenti, a scoperte fortuite che all’improvviso ci riconsegnano fra le mani reperti millenari, è innescato da cotali suggestioni. La lontananza che si rifà vicinanza, l’idea di un destino comune che percorre l’umanità, la storia che s’incarna in un segno tangibile spingono l’onda emotiva che abbiamo visto in tante analoghe circostanze. Pensiamo a Tanagra o più recentemente a San Casciano dei Bagni o ancora ai nuovi ritratti del Fayum, affiorati dall’oasi alla fine di quest’anno, trascorso più di un secolo dall’ultima fortunata campagna.  Idoli del sacro e del profano, una quotidianità estatica che sopraggiunge a scrutarci, dee-madri che allattano, giocano coi loro bambini, impugnano il fuso, tessitrici che imitano il gesto delle Parche». (Claudia Ciardi, L’arte e l’archetipo. Specchio di vita immortale, giugno 2023).

https://www.tumblr.com/claudiaciardiautrice

Pistoia, una defilata città – solo in apparenza – ma da sempre spazio in fermento e fucina di molte iniziative. Capoluogo toscano meno frequentato dal turismo, crocevia affascinante di creatività e culture (da «Erba d’Arno» quaderni 171-172, rubrica “Editoria pistoiese”, pp. 132-133).


Calligrammi, una personale esplorazione nella mia scrittura del legame fra linguaggio verbale e figurativo. La riproposta sul mio profilo tumblr della prosa In ogni filo d’erba, omaggio ai borghi liguri, alla mia permanenza sanremese e a Giorgio de Chirico. Grazie a chi continua ad apprezzare questo testo (e a farmelo sapere!).

Bergamo è un fiore

Ai piedi delle Orobie, città di architetture e atmosfere insolite, incorniciata da bellezze naturali con in dote un patrimonio culturale di rilievo, ai più forse poco noto. La parte vecchia dell’agglomerato, se si ha la fortuna d’incontrarla di sera, risalendo lungo i tortuosi muri che scortano verso l’alto, tra il silenzio e il profumo delle fioriture, sprigiona un fascino davvero singolare.

Verso la Città Alta, salendo lungo le antiche mura

In questo momento si stanno tenendo tantissime iniziative per vivere al meglio i percorsi urbani e sperimentare la vocazione artistica del luogo. Bergamo è infatti capitale italiana della cultura per il 2023. Molte le installazioni e i programmi che vanno dai festival musicali alle mostre, fino alla scoperta dei numerosi ecosistemi cittadini – ad esempio con la sentieristica dell’orto botanico, vero e proprio giardino pensile che sovrasta le mura veneziane.

Questa del paesaggio fiorito è forse la più spiccata delle caratteristiche offerte da Bergamo nella stagione calda. Roseti dappertutto. Una città letteralmente incoronata di rose. Una propensione ‘botticelliana’ e non a caso il maestro del Rinascimento si affaccia dalle sale dell’Accademia Carrara, sfaccettato gioiello dove sono raccolti capolavori assoluti. Un ambiente davvero suggestivo. Gustare la prossimità delle prealpi, percepirne la presenza, mentre ci si immerge fra i quadri del Quattrocento toscano, e poi Carlo Crivelli, Sofonisba Anguissola – unica rappresentanza femminile – Giovanni Bellini, Lorenzo Lotto, Andrea Mantegna, Giovanni Battista Tiepolo, Francesco Hayez.

Benozzo Gozzoli, Madonna con bambino e angeli (Madonna dell’Umiltà), 1440-1445
Vicino da Ferrara, Angelo che piange, 1465-1470


Voracità espressiva dell’allattamento
1. Bergognone (Ambrogio da Fossano), Madonna che allatta il bambino, 1492-1495 circa. * Il capezzolo enorme di questa Madonna-contadina a cui il bambino si attacca con vorace appagamento suggerisce una spiritualità davvero terrena, carnale, incarnata. Esempio stupendo della presenza piemontese nel Quattrocento lombardo.
2. Giovanni Antonio Boltraffio, Madonna che allatta il bambino, 1508 circa.

Carlo Crivelli, Madonna col bambino, 1482.

*Il quadro esposto alla mostra di Palazzo Buonaccorsi a Macerata quest’inverno. Ritrovarlo qui è stato rivedermi nell’istante in cui l’ho osservato nelle Marche. E questa del vedere più volte un’opera che ci innamora in luoghi diversi è quasi una trasmigrazione spirituale. Per me uno stato che mi fa ricordare esattamente com’ero, cosa ho detto, chi era accanto a me quando l’ho visto altrove.
In tale circostanza si è anche rinnovata la sorprendente continuità con cui quest’anno, ad ogni mostra che ho visitato dopo Macerata, mi è sempre venuto incontro un Crivelli.


Un Francesco Hayez sfolgorante, che sta sempre e ovunque molto bene...

Francesco Hayez, Caterina Cornaro riceve l’annuncio della sua deposizione dal Regno di Cipro, 1842 (dettaglio)


Nelle sale ho pure avuto il piacere d’incrociare l’ex direttrice di Capodimonte che mi ha raccontato fatti d’interesse sia della Carrarese che delle collezioni napoletane. Se questa non si chiama fortuna.

Fiori che trionfano anche in un bellissimo allestimento all’entrata dell’Accademia stessa, a precedere il percorso di visita. Una galleria che racchiude schegge floreali, come un abbraccio fra città, immaginario che è qui sedimentato e bellezze custodite.

Rosa fresca aulentissima

Nella mia permanenza mi è quasi sembrato di onorare un rito apuleiano. E infatti Apuleio si è poi materializzato sotto una delle porte cittadine nell’aspetto di una bizzarra opera contemporanea. Un ‘disco epigrafico’ che ha subito richiamato la mia curiosità. Me incredula!

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Cultura diffusa – Alla scoperta del Piemonte

È di questi giorni il meritatissimo riconoscimento dei Musei Reali di Torino come polo culturale di primo livello, equiparato a Uffizi, Colosseo e Reggia di Caserta. In una regione di straordinarie bellezze naturali, che si accompagnano a un vastissimo e affascinante patrimonio artistico, dove il turismo si è fatto largo con meno clamore (e meno travisamenti), siamo di fronte a una dichiarazione di estremo rilievo.

Non si sa perché, il Piemonte è stato da sempre considerato forse meno attrattivo, almeno in certe frettolose narrazioni pubblicistiche. Sconta diciamo la sua indole un po’ burbera e dimessa. Non è un territorio che si rivela al primo passaggio né si concede agli sguardi superficiali. E ciò, a mio avviso, costituisce un punto di grande forza.

Questa indole la si comprende molto bene in un confronto fra la montagna piemontese e quella trentina. Al di là dei caratteri regionali diversi, che hanno comportato scelte e orientamenti in molti casi opposti, il Trentino è per larga parte un’affascinante e ordinatissima cartolina. Entrare di sera in Val di Fassa con la luce radente che accende le Dolomiti sullo sfondo è qualcosa che ti resta per la vita. La differenza che rilevo non riguarda dunque il paesaggio, suggestivo nei due luoghi, ma i caratteri degli abitati che si sono voluti conservare o a cui si è deciso di rinunciare. In Trentino trovo magari una sola baita con le vecchie travature nel centro di un paese, un miracolo risparmiato dalla foga della ristrutturazione, attorniato da alberghi moderni con servizi al top che però finiscono col togliermi qualcosa dell’intimità del posto. Mentre in quei pochi metri fra i muri cadenti e il legno disfatto amo passare più tempo che altrove, proprio perché lì finalmente il luogo mi parla.

Quando si arriva in alcune borgate del Piemonte, capita di metter piede in un ambiente fermo nel tempo, talora di rifugi cadenti – anche spopolati, e questo può essere pure un problema o forse no – ma ancora si osserva un ambiente alpino con i suoi caratteri di un secolo fa. E non è una montagna facile da capire, perché non ci sono canoni prestabiliti, riferimenti esatti e già noti. È la bellezza difficile di cui parlava Sciascia, quella che non si offre in modo scontato. Una bellezza tacita, che ti cade davanti improvvisa e coglie impreparati.

Nel marzo di quest’anno la Fondazione CRC, attiva in tanti progetti di altissima qualità per la tutela, lo studio e la fruizione dei beni culturali della provincia di Cuneo e, in generale, della regione, ha festeggiato il suo anniversario. È stata l’occasione per omaggiare figure di spicco che molto si sono spese per portare a conoscenza e comunicare le bellezze piemontesi, oltre l’ambito locale. Così Daniele Regis (Politecnico di Torino) in uno stralcio del discorso commemorativo: «Altri primati ci vengono universalmente riconosciuti (ma dimenticati da tutte le politiche europee sino all’ultimo PNRR) come l’eccellenza del patrimonio artistico, architettonico paesistico, demo-antropologico, agroalimentare, artigianale e naturalmente archivistico. Ai siti Unesco delle residenze Sabaude di Racconigi e Pollenzo e Grinzane, dei paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato, dei siti palafitticoli preistorici alpini, solo per restare alla meravigliosa provincia di Cuneo, per non parlare dei parchi delle Marittime e Gesso, corrisponde la rilevanza di un patrimonio diffuso senza eguali. E non parlo solo dell’architettura, del barocco che aveva sedotto l’americano Millon come Paolo Portoghesi, che ha dedicato le sue energie più belle nel suo indimenticabile libro molto fotografico sulle opere di Vittone nelle campagne piemontesi […] e ricordo la mostra fotografica sul barocco promossa da Viale degli anni Sessanta che aveva avuto 100.000  visitatori – o del neogotico oramai assurto, grazie al progetto CRC, ad assoluta rilevanza internazionale (con la benedizione di A. G. Dixon). […] Ma mi riferisco ancor più al patrimonio diffuso, che Pellegrino ha cantato in tanti libri, della montagna un tempo antropizzata, rimasta  intatta nei suoi abbandoni (e per questo così ricercata dagli stranieri stanchi delle ultra turisticizzate Alpi del nord-est), costruita dalla fatica di generazioni, raccontata in tanti suoi volumi stupendi». (Cuneo, 24 marzo 2023)

Cospicue sono state le progettualità messe in campo anche durante la pandemia. Campagne fotografiche estese, studi archivistici, catalogazioni imponenti, incontri e scambi che hanno tenuto nonostante politiche dissennate di chiusura. Certi atteggiamenti di intolleranza legati agli ultimi anni, aggravati da un serpeggiante dissidio sociale che ha visto scontrarsi proprio nel mondo della cultura persone animate da idee diverse e contrarie all’eccesso dei provvedimenti emergenziali, hanno finito con l’oscurare la genuinità e la bellezza di tante delle iniziative che si sono tratte in quel periodo. Non dimentico alcuni (indecenti) attacchi ad personam oltre al diniego da parte di taluni media di dare notizia di pubblicazioni e nomi di studiosi che avevano preso le distanze dalle politiche governative ispirate da austerità e autoritarismi sanitari. E questi sarebbero stati i ‘valori socialisti’? Comportamenti strumentali per intestarsi meriti valendosi del lavoro altrui, profittando delle condizioni di disagio dei singoli. Una cosa davvero gravissima da chi si dica artista o da chiunque abbia incarichi di ricerca.   

Allora, siamo felici di riprendere le fila di tante cose che ci hanno sostenuto e accomunato in un lasso di tempo difficile. Sui temi salienti di questi nostri studi siamo tornati nel corso delle ultime settimane per una lettura in chiave economica – con le crescenti sfide che ci pone e impone una nuova gestione economica – in un lungo saggio che uscirà a giorni. Abbiamo pertanto parlato di progetti diffusi, non solo in Piemonte ma anche in altre aree d’Italia. E di come il museo, assai più di altre istituzioni, abbia la possibilità e la responsabilità in questo momento storico di definirsi come interprete di dinamiche e tendenze innovatrici che sappiano fare la differenza in termini di modelli educativi e ricadute territoriali.

Benvenuto, Piemonte, dunque! E benvenuta sia una ritrovata capacità dinamica e progettuale che scardini certe ritualità puramente ideologiche e consequenziali impaludamenti del mondo culturale.

Pratonevoso – Artesina

Storica Libreria La Montagna – Via Sacchi – Torino

Celebrazioni del barocco piemontese (2020)

Venaria Reale – Il Parco

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Una montagna d’arte


Nelle settimane del ritorno dei cosiddetti grandi flussi turistici – sempre ingolfati nelle stesse due, tre mete – mentre prendono il via campagne pubblicistiche che lasciano perplessi, non fosse altro perché corteggiano l’ingorgo e coltivano i soliti stereotipi, in netto contrasto proprio con quel dichiarato spirito di modernità a trazione social alla base di tali sponsorizzazioni, riteniamo ancora più utile incentivare percorsi alternativi. L’Italia si contraddistingue per un ampissimo e variegato patrimonio diffuso. Si può prendere una stradina collinare e imbattersi in decine di cappelle votive, nicchie, antiche sepolture, pievi isolate, resti di bagni termali, pietre che forse un tempo furono sacre. Non è già forse questa un’esperienza d’incontro e contatto con le tracce della nostra cultura, coi segni di una persistente bellezza? Si può stare affacciati a una balaustra in una giornata di vento e guardare l’erba dei prati che si alza e si spiana in un respiro lunghissimo e ritmico come fosse un’onda, lo strumento di un’invisibile orchestra. E in fondo un filare d’alberi, e poi il bosco che s’inerpica al monte, in ogni tono di verde, nel fresco aroma delle fioriture. È il dono del Mugello, contrada d’arte e belle campagne e suggestive viste montane. In questo territorio, locus amoenus vocato alla spiritualità, in cui si sono intrecciate nel tempo energie creative e mecenatismo, hanno avuto i loro natali Giotto di Bondone e Beato Angelico. Rispettivamente, l’uno sul colle di Vespignano, l’altro su quello di Rupecanina. I dintorni di Vespignano, nell’abitato di Vicchio, a quel che si sa fecero anche da cornice all’incontro fra Giotto e il futuro maestro Cimabue che lì era solito rifornirsi di materiali per la sua bottega fiorentina. In tempi più recenti questo dolce paesaggio è stato inoltre rifugio d’amore e poesia per Sibilla Aleramo e Dino Campana. Continuità di immaginazioni, dunque, sogni e sensibilità che nei secoli si sono tesi la mano.

In un siffatto ambiente così denso di richiami non stupisce varcare la soglia di un piccolo museo. Piccolo per dimensioni ma gigantesco per quanto custodisce. Si tratta del Museo di Arte Sacra Beato Angelico a Vicchio. A illustrarmelo è stato un filosofo dell’arte, che si è soffermato anche sulle esperienze di visita di altri viaggiatori, condividendole con me. Una cosa che da antropologa ho trovato molto interessante, cioè leggere le opere calandosi nell’emotività altrui, in chi per primo ha attraversato uno spazio, così da ripercorrere e mischiare le tracce del suo passaggio alle proprie impressioni. Per la seconda volta, poco dopo le mostre romane, si è ripetuto un episodio simile; ovvero mi è capitato di parlare con persone che spontaneamente mi hanno raccontato le loro vicende professionali nell’arte o da grandi appassionati, senza essere storici dell’arte puri, per così dire. Ne ho tratto insegnamenti e chiavi di lettura non scontati che bisognerebbe tenere in maggior considerazione quando si ragiona di attrattività, di innovazione e pubblicistica (per tornare all’argomento d’apertura).

Del resto, la permanenza stessa in un luogo d’arte si nutre di diversi elementi che concorrono a svelarci il suo carattere, contribuendo appunto a farci entrare in relazione con ciò che vediamo a un grado più profondo. Di storia e storie, di identità, incroci, stratificazioni.

Credo che il Museo di Vicchio e la Casa di Giotto, appena fuori paese a due chilometri circa di distanza dal centro, siano due poli da includere necessariamente in qualsiasi progetto di valorizzazione del patrimonio diffuso. Centri e risorse in grado di accendere un interesse, di avvicinare a paesi e paesaggi altrimenti scavalcati dalle rumorose traiettorie di un certo turismo. È quindi auspicabile che siano due presenze fisse, da coinvolgere in modo permanente e capillare in ogni iniziativa dedicata a questi territori o anche di più ampio respiro fra aree e territorialità che intendano unire punti di forza e somiglianze per educare al senso della storia e della bellezza.

In accordo con la direzione non vengono diffuse fotografie delle opere esposte. Qui solo uno scorcio con vista d’insieme dalla sala d’ingresso che include una terracotta invetriata di Andrea della Robbia, una Madonna del latte in terracotta (di anonima manifattura toscana) e sullo sfondo una Madonna con bambino della bottega di Jacopo Chimenti detto L’Empoli. A sinistra, sempre all’entrata, non inclusa in questo scatto, c’è una raffinata Madonna assisa quattrocentesca del cosiddetto maestro della Madonna Straus.
E questo è solo l’inizio del percorso. Buona meraviglia a chi entra!

Per tutte le informazioni relative alla storia e alla collezione si rimanda al sito dedicato:

Museo d’Arte Sacra Beato Angelico – Vicchio – Piccoli Grandi Musei

Primavera e montagne in Mugello


* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Tutte le informazioni utili sui relativi siti e canali social
(clicca qui sopra per ingrandire)


Fino al 30 aprile 2023 il Trittico di Nicolas Froment in Bosco ai Frati
per Terre degli Uffizi in Mugello. Mostra promossa e organizzata dall’Unione Montana dei Comuni del Mugello.

Arte salvata, arte liberata

Ultimi giorni per visitare la mostra sull’arte liberata a Roma. Un imponente allestimento nelle sale delle Scuderie del Quirinale dedicato ai capolavori strappati alla barbarie della guerra. La storia di donne e uomini coraggiosi quanto generosi che profusero tutte le loro energie per salvare il nostro patrimonio culturale. Protagonisti di leggendari e rischiosissimi trasferimenti realizzati in tempistiche impossibili, con scarsità di personale e di mezzi, nella continua incertezza di uno scenario mutevole che celava insidie sempre nuove. Validi organizzatori, instancabili.

Sono qui riuniti i grandi nomi della storia dell’arte. Per citarne solo alcuni, Piero della Francesca, Guercino, Francesco Hayez, Hans Holbein, Lorenzo Lotto, Luca Signorelli, Paolo Veneziano.

Una cospicua presenza di autori provenienti dalle pinacoteche marchigiane ci aiuta a comprendere l’estensione e la diffusione della nostra arte. Giovanni Baronzio, Olivuccio di Ciccarello, Allegretto Nuzi ne attestano la potente capillarità. Tesori immensi sparsi in ogni provincia che rendevano arduo selezionare, accordare una priorità, decidere cosa fosse più importante salvare e cosa no – le Marche che molto hanno contribuito alla realizzazione di questo evento, sono state una delle principali mete cui avviare il ricovero delle opere da sottrarre alle incombenti distruzioni.

Per me anche un legame che si è idealmente rinnovato dall’incontro con le collezioni di Palazzo Buonaccorsi a Macerata all’inizio di quest’anno. Voltarmi e trovarmi all’improvviso di nuovo davanti a un’opera di Carlo Crivelli è stata un’emozione indescrivibile.

Carlo Crivelli, Secondo trittico di Valle Castellana, 1472 circa (dettaglio),
in prestito dalla Pinacoteca civica di Ascoli Piceno
Guardate quanto amore in queste espressioni e nei gesti /
Castello di Montegufoni, agosto 1944
Luca Signorelli, Crocifissione di Cristo (1500-1505, circa), in prestito dagli Uffizi

C’è una considerazione che letteralmente tallona il visitatore per l’intero percorso della mostra: “Cosa abbiamo rischiato!”. Il mio incontro con le fotografie delle opere d’arte per così dire trincerate, all’inizio del secondo conflitto mondiale, risale alle lezioni del liceo. Ricordo la mia professoressa che, mentre ci mostrava le lugubri riproduzioni in bianco e nero delle armature costruite intorno alle statue, scuoteva la testa dicendo: “Possibile mai che un paese come il nostro, con il patrimonio artistico che possiede, entri in guerra?”. Ecco, appunto, cosa abbiamo rischiato…

E come non pensare di nuovo alla Triennale di Milano del 2018-2019 dedicata alle distruzioni, dove il pubblico veniva accolto da un grande pannello in cui si elencavano i danni di guerra; un’impressionante quantificazione del patrimonio perduto.

Per la presente rassegna sono stati scelti dei fondali di legno che volutamente riproducono e ricordano le casse d’imballaggio dove i nostri capolavori sono stati deposti, trovando ricovero.

Non solo quadri e statue ma anche libri. Emblematico il caso della collaborazione fra l’inesauribile Fernanda Wittgens e la collega Mary Buonanno Schellembrid, direttrice della Braidense, impegnate nella messa in sicurezza del catalogo generale per autori della biblioteca. Intrecci femminili dove si stagliano figure volitive che rasentano la sfrontatezza – qualità in tal caso più che positiva, sollecitata dall’emergenza. La già citata Wittgens, e la fascinosa ma altrettanto risoluta Palma Bucarelli che, a bordo della sua mitica Topolino, scortava i convogli con le opere d’arte da trasferire, o ancora Noemi Gabrielli, una minuta ma coriacea signora di Pinerolo sulle cui spalle gravò la responsabilità di buona parte delle operazioni piemontesi per conto della Galleria Sabauda e dell’Accademia Albertina. 

* Fotografie di Claudia Ciardi ©


Arte liberata, 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra – Scuderie del Quirinale, Roma (16 dicembre 2022 – 10 aprile 2023)

Incantare. Simboli e figure del magico

Pagina d’illustrazioni tratta da “La magia a Roma”, articolo pubblicato su Storica (National Geographic Italia), luglio 2022

Mentre raccolgo qualche idea sulle tracce della cultura magica nel mondo antico, mi capita di leggere un articolo che mette in guardia da possibili risvolti patologici nel cosiddetto pensiero magico compulsivo. Tutti questi seriosi sostantivi così inanellati mi frastornano; forse l’avvisaglia patologica sta proprio in un lessico così ruvido e respingente. Si dice poi che bisogna fare attenzione a stanare questi sintomi già nei bambini. Un bambino ‘troppo fantasioso’ va monitorato e disinnescato. Che asettica in-civiltà la nostra! Ci sarà anche il rischio di qualche scivolamento psichico, ma si corre pure un pericolo altrettanto grave – se non peggiore – di sterminare degli ingenui moti e bisogni interiori, che sono forse il primo e unico mezzo per un bimbo di comunicare col mondo. Un mondo che può fargli sempre più paura e in cui vorrebbe trovare qualcosa di affascinante (non uso casualmente questa parola, ma la intendo come preciso rimando all’idea del fascino e dell’affatturazione).

Si capisce perché gli studi sull’antichità vivano oggi un momento assai impopolare. Greci, romani, persiani, egiziani erano immersi in simili credenze – certo erano società molto superstiziose, anche – ma avevano di sicuro più rispetto di noi per il dono dell’immaginazione.

Mi ha sempre suscitato apprensione chi attacca qualcuno solo perché si diverte a leggere un oroscopo. Che è peraltro un piacevolissimo divertissement, e oltretutto ci sono astrologi che hanno una capacità di scrittura più fine di altri compunti letterati à la carte. Insomma, l’intolleranza nei confronti della leggerezza, verso aspetti per così dire non immediatamente utilitaristici del vivere, la ritengo molto pericolosa. Fiutare il morbo dappertutto, perfino in un ingenuo momento di ‘piacere magico’ scaturito dal trafiletto astrale di una rivista, cela un intento persecutorio. Così, mentre diciamo di difendere la razionalità, siamo i più irrazionali e maniacali.

Nel mondo antico divinazione, interpretazione dei sogni, poesia, incantesimi e rituali religiosi, astronomia e astrologia erano aspetti vicini, in armonica fusione e comprovata confusione. Certo, non tutto era lecito. Anzi, le leggi sui sospettati di praticare malefici, di utilizzare le proprie conoscenze mediche e botaniche per fabbricare veleni, di attentare alla vita o ai beni altrui con mezzi occulti, erano severe e le punizioni contemplavano fino alla pena di morte. Emblematico il caso delle XII Tavole, il primo corpus giuridico latino. Secondo le autorità la magia era capace di provocare conseguenze nella vita reale, di qui la codifica di norme a protezione dei cittadini. Il pantheon greco-romano annoverava non a caso alcuni dei associati alla dimensione magica, come Hermes, il messaggero divino, che poteva viaggiare fra terra e aldilà, o Ecate, dea della notte e della stregoneria.

Nel periodo imperiale è noto il caso del romanziere Apuleio che non nascose la sua dedizione per le pratiche di magia – probabilmente si interessò ai misteri di Mitra, che dal I secolo a. C., con il ritorno delle legioni da oriente, conobbero a Roma larga diffusione. La stessa religiosità misterica con le sue implicazioni rituali intessute di prove da superare e catarsi finale sono per l’appunto al centro della sua maggiore opera letteraria Le Metamorfosi (o L’Asino d’oro).

La parola mago viene dal greco magos (μάγος) con cui si indicavano i Magi, sacerdoti persiani esperti in arti magiche, ma allo stesso tempo dotti in matematica e medicina. Quella legata ai culti magici è dunque una storia molto longeva che connette fasi diverse delle civiltà antiche nonché spazi geografici alquanto vasti, dalle satrapie orientali all’occidente. I greci ad esempio assimilarono la tradizione egizia di scrivere su piccoli fogli di papiro gli incantesimi, ai quali si accompagnavano ricette o pozioni a base di rare piante esotiche. Celebre l’opera di Fritz Graf, filologo e grande specialista delle religioni antiche, che ha raccolto, analizzato, ricostruito moltissimi aspetti della magia nel mondo greco e romano.

Per gli antichi la parola sprigionava un potere straordinario, cosicché era il medium per eccellenza dell’incantesimo. Una parola plasmata in versi, intonata, cantata. Qualcosa che poteva insinuarsi nella volontà, nel più intimo sentire di qualcuno e fin dentro i suoi sogni, intesi come catalizzatori di desideri, fantasie, disvelamenti; non semplici illusioni notturne ma spazi veri e propri in cui abitava l’anima.

In ambito artistico si segnala una produzione variegata e meravigliosa di oggetti magici dei quali gli amuleti sono forse i manufatti più bizzarri. Teste teriomorfe o figure mitologiche (la Medusa è forse la più frequente) sono al centro di rinvenimenti diffusi in tutte le aree occupate dalla civiltà ellenica e romana. Simili suggestioni si sono tramandate fino ai giorni nostri. Il volto della Gorgone in quanto simbolo ipnotizzante e apotropaico – quindi anche intriso di qualità magiche – ha avuto larghissima fortuna, come soggetto indipendente nelle rappresentazioni d’arte e perfino come logo aziendale. Si pensi alla casa di moda Versace che ha unito la Medusa (scelta dal fondatore Gianni) al leone (idea di Donatella) per la proposta commerciale delle sue produzioni. Entrambe queste creature sono infatti associate a vari livelli nella ritualità romana, portatrici di messaggi ctoni e ultraterreni.

Inchiostro Medusa_ditta Gio Diletti di Brisighella // Adoro questa bottiglia vintage / fotografia di Claudia Ciardi ©

La magia nell’antica Grecia e a Roma – Articolo di Eleonora Fioletti su Frammentirivista

Risolto il mistero della testa di toro nella vasca magica etrusco-romana di San Casciano dei Bagni – Su StileArte

I leoni antichi – simbologia – Museo Monteleonesabino

L’antropologia letteraria di Carlo Levi