Cultura diffusa – Alla scoperta del Piemonte

È di questi giorni il meritatissimo riconoscimento dei Musei Reali di Torino come polo culturale di primo livello, equiparato a Uffizi, Colosseo e Reggia di Caserta. In una regione di straordinarie bellezze naturali, che si accompagnano a un vastissimo e affascinante patrimonio artistico, dove il turismo si è fatto largo con meno clamore (e meno travisamenti), siamo di fronte a una dichiarazione di estremo rilievo.

Non si sa perché, il Piemonte è stato da sempre considerato forse meno attrattivo, almeno in certe frettolose narrazioni pubblicistiche. Sconta diciamo la sua indole un po’ burbera e dimessa. Non è un territorio che si rivela al primo passaggio né si concede agli sguardi superficiali. E ciò, a mio avviso, costituisce un punto di grande forza.

Questa indole la si comprende molto bene in un confronto fra la montagna piemontese e quella trentina. Al di là dei caratteri regionali diversi, che hanno comportato scelte e orientamenti in molti casi opposti, il Trentino è per larga parte un’affascinante e ordinatissima cartolina. Entrare di sera in Val di Fassa con la luce radente che accende le Dolomiti sullo sfondo è qualcosa che ti resta per la vita. La differenza che rilevo non riguarda dunque il paesaggio, suggestivo nei due luoghi, ma i caratteri degli abitati che si sono voluti conservare o a cui si è deciso di rinunciare. In Trentino trovo magari una sola baita con le vecchie travature nel centro di un paese, un miracolo risparmiato dalla foga della ristrutturazione, attorniato da alberghi moderni con servizi al top che però finiscono col togliermi qualcosa dell’intimità del posto. Mentre in quei pochi metri fra i muri cadenti e il legno disfatto amo passare più tempo che altrove, proprio perché lì finalmente il luogo mi parla.

Quando si arriva in alcune borgate del Piemonte, capita di metter piede in un ambiente fermo nel tempo, talora di rifugi cadenti – anche spopolati, e questo può essere pure un problema o forse no – ma ancora si osserva un ambiente alpino con i suoi caratteri di un secolo fa. E non è una montagna facile da capire, perché non ci sono canoni prestabiliti, riferimenti esatti e già noti. È la bellezza difficile di cui parlava Sciascia, quella che non si offre in modo scontato. Una bellezza tacita, che ti cade davanti improvvisa e coglie impreparati.

Nel marzo di quest’anno la Fondazione CRC, attiva in tanti progetti di altissima qualità per la tutela, lo studio e la fruizione dei beni culturali della provincia di Cuneo e, in generale, della regione, ha festeggiato il suo anniversario. È stata l’occasione per omaggiare figure di spicco che molto si sono spese per portare a conoscenza e comunicare le bellezze piemontesi, oltre l’ambito locale. Così Daniele Regis (Politecnico di Torino) in uno stralcio del discorso commemorativo: «Altri primati ci vengono universalmente riconosciuti (ma dimenticati da tutte le politiche europee sino all’ultimo PNRR) come l’eccellenza del patrimonio artistico, architettonico paesistico, demo-antropologico, agroalimentare, artigianale e naturalmente archivistico. Ai siti Unesco delle residenze Sabaude di Racconigi e Pollenzo e Grinzane, dei paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato, dei siti palafitticoli preistorici alpini, solo per restare alla meravigliosa provincia di Cuneo, per non parlare dei parchi delle Marittime e Gesso, corrisponde la rilevanza di un patrimonio diffuso senza eguali. E non parlo solo dell’architettura, del barocco che aveva sedotto l’americano Millon come Paolo Portoghesi, che ha dedicato le sue energie più belle nel suo indimenticabile libro molto fotografico sulle opere di Vittone nelle campagne piemontesi […] e ricordo la mostra fotografica sul barocco promossa da Viale degli anni Sessanta che aveva avuto 100.000  visitatori – o del neogotico oramai assurto, grazie al progetto CRC, ad assoluta rilevanza internazionale (con la benedizione di A. G. Dixon). […] Ma mi riferisco ancor più al patrimonio diffuso, che Pellegrino ha cantato in tanti libri, della montagna un tempo antropizzata, rimasta  intatta nei suoi abbandoni (e per questo così ricercata dagli stranieri stanchi delle ultra turisticizzate Alpi del nord-est), costruita dalla fatica di generazioni, raccontata in tanti suoi volumi stupendi». (Cuneo, 24 marzo 2023)

Cospicue sono state le progettualità messe in campo anche durante la pandemia. Campagne fotografiche estese, studi archivistici, catalogazioni imponenti, incontri e scambi che hanno tenuto nonostante politiche dissennate di chiusura. Certi atteggiamenti di intolleranza legati agli ultimi anni, aggravati da un serpeggiante dissidio sociale che ha visto scontrarsi proprio nel mondo della cultura persone animate da idee diverse e contrarie all’eccesso dei provvedimenti emergenziali, hanno finito con l’oscurare la genuinità e la bellezza di tante delle iniziative che si sono tratte in quel periodo. Non dimentico alcuni (indecenti) attacchi ad personam oltre al diniego da parte di taluni media di dare notizia di pubblicazioni e nomi di studiosi che avevano preso le distanze dalle politiche governative ispirate da austerità e autoritarismi sanitari. E questi sarebbero stati i ‘valori socialisti’? Comportamenti strumentali per intestarsi meriti valendosi del lavoro altrui, profittando delle condizioni di disagio dei singoli. Una cosa davvero gravissima da chi si dica artista o da chiunque abbia incarichi di ricerca.   

Allora, siamo felici di riprendere le fila di tante cose che ci hanno sostenuto e accomunato in un lasso di tempo difficile. Sui temi salienti di questi nostri studi siamo tornati nel corso delle ultime settimane per una lettura in chiave economica – con le crescenti sfide che ci pone e impone una nuova gestione economica – in un lungo saggio che uscirà a giorni. Abbiamo pertanto parlato di progetti diffusi, non solo in Piemonte ma anche in altre aree d’Italia. E di come il museo, assai più di altre istituzioni, abbia la possibilità e la responsabilità in questo momento storico di definirsi come interprete di dinamiche e tendenze innovatrici che sappiano fare la differenza in termini di modelli educativi e ricadute territoriali.

Benvenuto, Piemonte, dunque! E benvenuta sia una ritrovata capacità dinamica e progettuale che scardini certe ritualità puramente ideologiche e consequenziali impaludamenti del mondo culturale.

Pratonevoso – Artesina

Storica Libreria La Montagna – Via Sacchi – Torino

Celebrazioni del barocco piemontese (2020)

Venaria Reale – Il Parco

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Pendoli e prodigi

Questa riflessione potrebbe intitolarsi pendoli e prodigi. Il pendolo è qualcosa che scandisce il tempo, anzi lo spazio ancor prima del tempo, con identico moto. Ha in sé qualcosa di ossessivo e perfino snervante. Ci fa sentire senza uscita ed è meglio non soffermarcisi troppo. Si rischia l’ipnosi o di restare inchiodati al suo ripetitivo dettato. Il prodigio è qualcosa che irrompe, inatteso, improvviso. Non è detto che faccia rumore. Anzi, spesso ci viene incontro impercettibile. Altre volte sembra quasi metterci alla prova. Saremo davvero in grado di coglierlo o la nostra sensibilità si è nel frattempo persa, soccombente ai ritmi sempre uguali e ossessivi del pendolo che ci svuotano le pupille? No, sentiamo ancora se quell’impercettibile ancora ci parla. E anche il pendolo, forse, diventa meno stringente. La sua cadenza non è più ad infinitum, inafferrabile, senza meta, ma diviene un cenno rituale.

Ero salita a San Pietro in Vincoli e mi aggiravo in una via laterale. A un certo punto si è alzato il vento, sempre il vento, che è spirito, anima, soffio vitale. Cammino nel primo pomeriggio, la luce è cambiata e io vago. Divago. Cadono all’improvviso dei calcinacci da un palazzone antico. I pochi frammenti si disintegrano sulla macchina sottostante, quelli più piccoli mi arrivano sul braccio, per fortuna senza conseguenze. Un turista accanto a me, visibilmente spaventato grida: “What’s happened?”. E io, appena dopo aver compreso: “The wind, the wall”, con una calma inusuale. Mi è sembrato di ripetere il verso di un poema. Quasi parlassi da chissà quale mondo. E non mi sono resa conto che intanto stavo tenendo il braccio fermo nella stessa posizione dell’attimo in cui avevo sentito cadere quei pezzi d’intonaco. Chiamarlo prodigio può suscitare inquietudine. In fin dei conti, diciamo, è andata bene. Oppure, si tratta di un prodigio proprio perché è andata bene. Ma c’è qualcos’altro. Nello spavento di quei secondi, che ho realizzato solo nel momento in cui ho sentito gridare quella frase accanto a me, mentre ho avvertito la mia pelle lambita da quei frammenti di muro, per me è stato come esser toccata, non solo da materia fisica, ma da un pensiero, un intendimento, qualcosa di molto vasto, di sapiente e presente come se fosse sempre lì dove siamo. E questo non può certo dirsi pauroso. Una mia amica asserisce con grande convinzione che si tratta per l’appunto di Wunder, e che vanno presi per quello che sono e bisogna rispettarli.

Io credo in una ritualità che appartiene agli eventi, agli incontri. Non credo alla casualità di questo turista al mio fianco che ha condiviso con me l’esperienza dello spavento e dello stupore. Un’esperienza così intima e frastornante, più intima e profonda di altre che consideriamo tali. Sacre cose che saluto sul mio cammino, perché attutiscono, rallentano il pendolo e, anzi, danno senso, illuminando tutto il resto. Ultimamente ho avuto molti riscontri così, meno rischiosi, ma di pari intensità, un’intensità che per ciascun caso si misura in modo diverso. Ogni volta ci si sente scavati, torniti come materia grezza plasmata da una mano che forse talvolta sembra togliere ma solo per aggiungere, per raggiungere un istante di comprensione, il senso, il vero che ci appartiene, che è per noi riconoscimento nostro e degli altri. Tali cose sono costellazioni, sono parte della bellezza a cui esortavo nelle mie poche frasi d’inizio primavera. Sono infine disvelamento e respiro.

Dunque certi attimi sembrano destinati ad essere più rivelatori di un’intera epoca. Lo ha già espresso qualcuno, se in forma simile o diversa non saprei dire con esattezza. Ci si sente infinitesimi, fibre lievissime che sono parte e non parte di qualcosa di molto più grande. Attraversiamo luoghi come in sogno. Siamo e non siamo. E capita un giorno di entrare in un giardino, di posare lo sguardo su un’erta un po’ arruffata, sulla delicatezza dei fiori. È un miracolo avvistare tanto splendore, soffermarsi sull’idea che la terra spontaneamente ancora ne offra. Proprio questo pensiero tra belle e delicate apparizioni è anzi il perfetto connubio, il vero incantesimo opposto alla bufera. Perché ormai ogni attimo risparmiato a ciò che è crollo e perdita, ogni intensità sottratta alla fuga del tempo, al rigore del pendolo, che altrimenti livella e abbatte e disfa, ha in sé una qualità prodigiosa. Passa un altro giorno e dal cielo scendono grandine e pioggia. Che ne è più della leggerezza e del sogno di quelle rapide ore vissute? Il vento ha frantumato l’intonaco di una facciata, la pioggia ha dilavato le alture. Qualcosa precipita vicino a me, mi tocca e non mi tocca. Lo sbriciolarsi di un muro in un vicolo, la caduta dei cieli. Materia per materia, tanto reale, altrettanto irreale. Davanti o dietro di me a delimitare un istante di verità.

Roma – Fioriture ai Fori Imperiali
Roma – Tra noi e gli antichi
Firenze – Il giardino dell’iris
Firenze – Il giardino dell’iris – panorama

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Quando rinascono gli dei

Veste con fiordalisi. Dettaglio della Venere di Sandro Botticelli (figura femminile alla destra della dea)

Al giorno d’oggi capita di vedere gli dei rinascere. Cartonati, in maglietta, si presentano al pubblico, posano per un selfie tra i monumenti o si godono sfondi balneari. La divinità veste panni umani, tecnologici, al passo coi tempi – non fanno che ripeterlo, forse più per autoconvincimento. In tanti guardano e criticano – piovono meme da ogni dove, il modo più diretto per irridere, un bizzarro regolamento di conti (con qualche spunto simpatico, bisogna ammetterlo) interno al social network. Alcuni, ma meno, procedono all’opposto e affermano che è un successo proprio perché se ne parla così tanto. Pubblicità che si autoalimenta – anche questo secondo l’imperio social. I diretti interessati, che hanno presieduto al rito di rinascita, ringraziano, proprio perché si è fatto da subito un gran parlare e spippolare.

Del resto, con il velocizzarsi della comunicazione, direi con l’ascesa del suo carattere istantaneo, va di moda affermare che una cosa viene legittimata dalla forza con cui irrompe e s’impone nel dibattito. Che si tratti di un brutto episodio o di un bel gesto è secondario. L’importante è che se ne parli. Di sfuggita facciamo notare che la tendenza cui si assiste è quella che incensa la pessima fama. Vagamente aleggia il pensiero di Napoleone: parlate bene, parlate male… A quanto pare il condottiero francese aveva già carpito il segreto di autorevolezza (e metriche!) molto prima dell’avvento di internet.

Qualcuno sostiene che si tratta di critica per partito preso. Quale partito? Se oggi vi è una certezza, è che non si sa più con chi si parla. Un giorno siamo di potta e un giorno di culo – nell’esprimere una bassezza dei nostri tempi scendo volutamente di registro, adatto anch’io la comunicazione.

Nell’ultimo Sanremo abbiamo assistito ai vistosi sdoganamenti di Instagram – il motto era instagrammatevi tutti… che così risolviamo i problemi (questo lo aggiungo io) – e ai calcioni menati alle povere rose ornamentali del palco. Operazioni mediatiche, cui la prevedibile polemica del giorno dopo ha dato forza. Innalzamento dell’hype… ho detto hype, giuro che non è una parolaccia [“montatura pubblicitaria”; tradotto per noi comuni mortali] come social comanda. La mattina successiva al raptus Blanco spopolava nei trend, mangiandosi tutto. E infatti chi voleva cavalcare a sua volta un po’ di quella visibilità si è affiliato e affidato al suo traino.

Butto lì ancora un paio di riflessioni. La Venere pop di Andy Warhol continua ad avere un senso. La guardo, non mi urta per nulla, anzi. Tuttavia alla luce delle attuali dinamiche, qualcuno ha finito per identificarla con l’inizio di un processo di desacralizzazione (o sacrilegio) dei grandi classici. Comunque la si pensi, rimane la proposta di un creativo che costruisce un linguaggio per conto proprio (non un esperimento dell’IA, non un ammiccamento alle logiche del mercato virtuale). Gli improbabili e disarmonici patchwork, i mixage ispirati dagli influencer, le citazioni e i rimbalzi da account affollati, che poi si scoprono seguiti da identità-non identità, insomma quest’arte fluida, posticcia, ineducata e che dunque non potrà educare, è figlia nostra, nata dalla digital economy. Il mio assunto è molto semplice, perfino banale – ma ovvietà per ovvietà, preferisco il luogo comune ad ogni sovrastruttura pacchiana. Io dico che Sandro Botticelli è il miglior influencer in proprio che si possa immaginare. Quello che gli si mette intorno o, peggio, davanti, non è nulla o quasi. È un momento scenico, quindi effimero. Quando non si limita ad essere impacciante, scade nel ridicolo. Ciò significa infine prestare il fianco a un’economia di cartapesta – non lo dico io ma autorevoli analisti intervenuti anche poche settimane fa, dopo il crollo delle banche regionali in Silicon Valley. Tutto allora è sembrato esplodere in un attimo per poi, c’era da scommetterci, riassorbirsi alla velocità della luce; peccato che ancora non si sia fatta chiarezza sullo stato di salute di molti degli istituiti regionali coinvolti. Basti questo dato, che dovrebbe farci trasalire. In una settimana sono stati stampati 400 miliardi di dollari. Praticamente risulta che per tamponare la falla si è prodotto un debito equivalente a quello accumulato in duecento anni di storia economica degli Stati Uniti.

Quando gli dei rinascono open e social è sempre un evento. Così affermano. Quale sia il senso non importa. Ed ecco servito lo scotto che paghiamo all’essere anche noi rinati digitali. Chiudo dicendo che non demonizzo a prescindere certi strumenti di comunicazione. Ma il punto è nobilitarli, se possibile. Innalzare il livello. Renderli funzionali a divulgare qualcosa di non scontato, perciò provando a utilizzarli in modo non convenzionale. Poi ci sarebbero le questioni in fieri relative all’uso dei dati, alla privacy, alle profilazioni più o meno selvagge, al copyright degli artisti che non approfondiamo qui, ma che non sono di secondaria importanza per rendere infine credibili questi contenitori.

Avevo già avuto modo di scrivere che la discussione sui cosiddetti nuovi media è solo agli inizi. Ne sono profondamente convinta. Come sono convinta che certi canali possano aiutare a smuovere l’aria asfittica di alcune inviolate stanze. Ma ci vuole intelligenza. Perché a scadere nella corrente della diseducazione ci si mette un secondo, il tempo di un click.

John Dewey è stato uno tra i pensatori che maggiormente hanno contribuito al dibattito sulla fruizione dell’arte. Il fine educativo è per lui inderogabile. Lo accosto volentieri a Fernanda Wittgens, fra le menti più moderne e aperte nella cura del nostro patrimonio culturale, che molto si è spesa anche in qualità di educatrice, la quale era convinta che «i tanti intellettuali ignavi e asociali sono i veri responsabili della tragedia italiana». Come darle torto. Questa frase me la voglio incidere su una parete. Che danni fa la spocchia, che disastri la saccenteria. Queste sono le vere cose contro cui fare argine. Altrimenti il paese invecchia ancor più che nel bios nei cervelli. Il che è la vera iattura. Allora, meglio mille volte chi smuove l’aria. Se poi sbaglia o fa qualche scivolone, va anche bene. Basta non rimanere fermi. Sul resto, sono più che certa sia possibile trovare una misura. Purché non si perda di vista la realtà. Quando si pensa al turismo, oggi, è d’obbligo lanciare strategie indirizzate a distribuire i flussi, gettando un occhio (meglio entrambi) alla sostenibilità, aprendo letteralmente vie nuove. Quindi servono prima di tutto le infrastrutture. Come copro i quattro chilometri dalla stazione alla fortezza di Talamone? Un esempio che vale per tantissimi itinerari. Con la bella stagione le piste ciclabili sarebbero la cosa più semplice, senza impatto ambientale, comode, piacevoli. Solo che in Italia non ci si è mai voluto investire più di tanto. È un esempio fra i tanti. Insomma, la vera rivoluzione io credo stia nel saper interpretare e coniugare esigenze diverse, ispirati da valori ben distanti dal mero e insostenibile consumismo.

Venere in una pittura pompeiana

Di seguito un paio di articoli per approfondire alcuni temi toccati in questa riflessione. Il primo sulla campagna Open to meraviglia. Un buon articolo. Va in direzione contraria e chi dice cose in direzione contraria mi piace. Anche se non concordo con l’idea base di “bersaglio grosso” e “bersaglio piccolo”. L’Italia è il paese per eccellenza del patrimonio diffuso. La somma di queste meraviglie diffuse sul territorio fa il cosiddetto bersaglio grosso. È una questione di riorientamento del punto di vista, un problema nodale per i motivi che ho spiegato a conclusione del mio scritto.

Open to Meraviglia: top o flop? su «La Svolta»

Poi un vivace commento sull’ascesa mediatica di Chiara Ferragni. Credo che sul suo passaggio a Sanremo si sia scritto un articolo al minuto, un po’ come per il dibattito su Open to meraviglia, dove del resto, e a ragione, si è rilevata una discreta presenza di “ferragnizzazione”. Ripropongo questo articolo non in quanto pamphlet sul personaggio che si sa essere estremamente divisivo e rumoroso ad ogni colpo di tastiera, ma perché è molto interessante l’analisi sulla sovrapposizione fra life e content, che a mio avviso aiuta a capire in quale “gioco” (o assillo) siamo immersi.

Chiara Ferragni, il racconto dell’ancella dell’algoritmo su «Rivista Studio»

Una montagna d’arte


Nelle settimane del ritorno dei cosiddetti grandi flussi turistici – sempre ingolfati nelle stesse due, tre mete – mentre prendono il via campagne pubblicistiche che lasciano perplessi, non fosse altro perché corteggiano l’ingorgo e coltivano i soliti stereotipi, in netto contrasto proprio con quel dichiarato spirito di modernità a trazione social alla base di tali sponsorizzazioni, riteniamo ancora più utile incentivare percorsi alternativi. L’Italia si contraddistingue per un ampissimo e variegato patrimonio diffuso. Si può prendere una stradina collinare e imbattersi in decine di cappelle votive, nicchie, antiche sepolture, pievi isolate, resti di bagni termali, pietre che forse un tempo furono sacre. Non è già forse questa un’esperienza d’incontro e contatto con le tracce della nostra cultura, coi segni di una persistente bellezza? Si può stare affacciati a una balaustra in una giornata di vento e guardare l’erba dei prati che si alza e si spiana in un respiro lunghissimo e ritmico come fosse un’onda, lo strumento di un’invisibile orchestra. E in fondo un filare d’alberi, e poi il bosco che s’inerpica al monte, in ogni tono di verde, nel fresco aroma delle fioriture. È il dono del Mugello, contrada d’arte e belle campagne e suggestive viste montane. In questo territorio, locus amoenus vocato alla spiritualità, in cui si sono intrecciate nel tempo energie creative e mecenatismo, hanno avuto i loro natali Giotto di Bondone e Beato Angelico. Rispettivamente, l’uno sul colle di Vespignano, l’altro su quello di Rupecanina. I dintorni di Vespignano, nell’abitato di Vicchio, a quel che si sa fecero anche da cornice all’incontro fra Giotto e il futuro maestro Cimabue che lì era solito rifornirsi di materiali per la sua bottega fiorentina. In tempi più recenti questo dolce paesaggio è stato inoltre rifugio d’amore e poesia per Sibilla Aleramo e Dino Campana. Continuità di immaginazioni, dunque, sogni e sensibilità che nei secoli si sono tesi la mano.

In un siffatto ambiente così denso di richiami non stupisce varcare la soglia di un piccolo museo. Piccolo per dimensioni ma gigantesco per quanto custodisce. Si tratta del Museo di Arte Sacra Beato Angelico a Vicchio. A illustrarmelo è stato un filosofo dell’arte, che si è soffermato anche sulle esperienze di visita di altri viaggiatori, condividendole con me. Una cosa che da antropologa ho trovato molto interessante, cioè leggere le opere calandosi nell’emotività altrui, in chi per primo ha attraversato uno spazio, così da ripercorrere e mischiare le tracce del suo passaggio alle proprie impressioni. Per la seconda volta, poco dopo le mostre romane, si è ripetuto un episodio simile; ovvero mi è capitato di parlare con persone che spontaneamente mi hanno raccontato le loro vicende professionali nell’arte o da grandi appassionati, senza essere storici dell’arte puri, per così dire. Ne ho tratto insegnamenti e chiavi di lettura non scontati che bisognerebbe tenere in maggior considerazione quando si ragiona di attrattività, di innovazione e pubblicistica (per tornare all’argomento d’apertura).

Del resto, la permanenza stessa in un luogo d’arte si nutre di diversi elementi che concorrono a svelarci il suo carattere, contribuendo appunto a farci entrare in relazione con ciò che vediamo a un grado più profondo. Di storia e storie, di identità, incroci, stratificazioni.

Credo che il Museo di Vicchio e la Casa di Giotto, appena fuori paese a due chilometri circa di distanza dal centro, siano due poli da includere necessariamente in qualsiasi progetto di valorizzazione del patrimonio diffuso. Centri e risorse in grado di accendere un interesse, di avvicinare a paesi e paesaggi altrimenti scavalcati dalle rumorose traiettorie di un certo turismo. È quindi auspicabile che siano due presenze fisse, da coinvolgere in modo permanente e capillare in ogni iniziativa dedicata a questi territori o anche di più ampio respiro fra aree e territorialità che intendano unire punti di forza e somiglianze per educare al senso della storia e della bellezza.

In accordo con la direzione non vengono diffuse fotografie delle opere esposte. Qui solo uno scorcio con vista d’insieme dalla sala d’ingresso che include una terracotta invetriata di Andrea della Robbia, una Madonna del latte in terracotta (di anonima manifattura toscana) e sullo sfondo una Madonna con bambino della bottega di Jacopo Chimenti detto L’Empoli. A sinistra, sempre all’entrata, non inclusa in questo scatto, c’è una raffinata Madonna assisa quattrocentesca del cosiddetto maestro della Madonna Straus.
E questo è solo l’inizio del percorso. Buona meraviglia a chi entra!

Per tutte le informazioni relative alla storia e alla collezione si rimanda al sito dedicato:

Museo d’Arte Sacra Beato Angelico – Vicchio – Piccoli Grandi Musei

Primavera e montagne in Mugello


* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Tutte le informazioni utili sui relativi siti e canali social
(clicca qui sopra per ingrandire)


Fino al 30 aprile 2023 il Trittico di Nicolas Froment in Bosco ai Frati
per Terre degli Uffizi in Mugello. Mostra promossa e organizzata dall’Unione Montana dei Comuni del Mugello.

Arte salvata, arte liberata

Ultimi giorni per visitare la mostra sull’arte liberata a Roma. Un imponente allestimento nelle sale delle Scuderie del Quirinale dedicato ai capolavori strappati alla barbarie della guerra. La storia di donne e uomini coraggiosi quanto generosi che profusero tutte le loro energie per salvare il nostro patrimonio culturale. Protagonisti di leggendari e rischiosissimi trasferimenti realizzati in tempistiche impossibili, con scarsità di personale e di mezzi, nella continua incertezza di uno scenario mutevole che celava insidie sempre nuove. Validi organizzatori, instancabili.

Sono qui riuniti i grandi nomi della storia dell’arte. Per citarne solo alcuni, Piero della Francesca, Guercino, Francesco Hayez, Hans Holbein, Lorenzo Lotto, Luca Signorelli, Paolo Veneziano.

Una cospicua presenza di autori provenienti dalle pinacoteche marchigiane ci aiuta a comprendere l’estensione e la diffusione della nostra arte. Giovanni Baronzio, Olivuccio di Ciccarello, Allegretto Nuzi ne attestano la potente capillarità. Tesori immensi sparsi in ogni provincia che rendevano arduo selezionare, accordare una priorità, decidere cosa fosse più importante salvare e cosa no – le Marche che molto hanno contribuito alla realizzazione di questo evento, sono state una delle principali mete cui avviare il ricovero delle opere da sottrarre alle incombenti distruzioni.

Per me anche un legame che si è idealmente rinnovato dall’incontro con le collezioni di Palazzo Buonaccorsi a Macerata all’inizio di quest’anno. Voltarmi e trovarmi all’improvviso di nuovo davanti a un’opera di Carlo Crivelli è stata un’emozione indescrivibile.

Carlo Crivelli, Secondo trittico di Valle Castellana, 1472 circa (dettaglio),
in prestito dalla Pinacoteca civica di Ascoli Piceno
Guardate quanto amore in queste espressioni e nei gesti /
Castello di Montegufoni, agosto 1944
Luca Signorelli, Crocifissione di Cristo (1500-1505, circa), in prestito dagli Uffizi

C’è una considerazione che letteralmente tallona il visitatore per l’intero percorso della mostra: “Cosa abbiamo rischiato!”. Il mio incontro con le fotografie delle opere d’arte per così dire trincerate, all’inizio del secondo conflitto mondiale, risale alle lezioni del liceo. Ricordo la mia professoressa che, mentre ci mostrava le lugubri riproduzioni in bianco e nero delle armature costruite intorno alle statue, scuoteva la testa dicendo: “Possibile mai che un paese come il nostro, con il patrimonio artistico che possiede, entri in guerra?”. Ecco, appunto, cosa abbiamo rischiato…

E come non pensare di nuovo alla Triennale di Milano del 2018-2019 dedicata alle distruzioni, dove il pubblico veniva accolto da un grande pannello in cui si elencavano i danni di guerra; un’impressionante quantificazione del patrimonio perduto.

Per la presente rassegna sono stati scelti dei fondali di legno che volutamente riproducono e ricordano le casse d’imballaggio dove i nostri capolavori sono stati deposti, trovando ricovero.

Non solo quadri e statue ma anche libri. Emblematico il caso della collaborazione fra l’inesauribile Fernanda Wittgens e la collega Mary Buonanno Schellembrid, direttrice della Braidense, impegnate nella messa in sicurezza del catalogo generale per autori della biblioteca. Intrecci femminili dove si stagliano figure volitive che rasentano la sfrontatezza – qualità in tal caso più che positiva, sollecitata dall’emergenza. La già citata Wittgens, e la fascinosa ma altrettanto risoluta Palma Bucarelli che, a bordo della sua mitica Topolino, scortava i convogli con le opere d’arte da trasferire, o ancora Noemi Gabrielli, una minuta ma coriacea signora di Pinerolo sulle cui spalle gravò la responsabilità di buona parte delle operazioni piemontesi per conto della Galleria Sabauda e dell’Accademia Albertina. 

* Fotografie di Claudia Ciardi ©


Arte liberata, 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra – Scuderie del Quirinale, Roma (16 dicembre 2022 – 10 aprile 2023)

Ibico – Un canto di primavera

Nella poesia lirica corale Ibico (570-522 a.C. circa) occupa una posizione di rilievo. Reggino, appartenente a una famiglia aristocratica, si formò alla scuola del siciliano Stesicoro. Definito come uno dei primi poeti itineranti, soggiornò a Samo, alla corte del tiranno Eace e di suo figlio Policrate. Qui incontrò un altro celebre poeta greco, Anacreonte. Sarebbe stato anche un inventore (e costruttore) di strumenti musicali, tra cui un tipo particolare di lira detto sambuca (così Ateneo di Naucrati, IV, 175).

Secondo una leggenda, morì a causa dell’aggressione di un gruppo di malviventi inseguiti e scovati da uno stormo di gru, grazie a cui il poeta fu vendicato.

Proponiamo qui un suo celebre canto, il fr. 286 P, nella mia traduzione, in quella di Filippo Maria Pontani, per la raccolta dei lirici greci di Einaudi, e infine nelle raffinate rese del filologo Gennaro Perrotta e del poeta Salvatore Quasimodo, per me impareggiabile interprete delle voci greche.

La primavera è una forza vitale che scorre come linfa dentro ogni creatura. Per l’essere umano è il risveglio di Eros, una dirompente bufera, implacabile e drammatica (ἐρεμνὸς ἀθαμβὴς) che scuote e rimescola nel profondo. Si sente qui un’eco di Saffo (fr. 47 Voigt), dove amore è il vento di montagna che precipita nel bosco.

In primavera i meli 
cidonii dalle correnti dei fiumi
abbeverati, dov’è intatto
il giardino delle ninfe,
e i tralci dal sogno nutriti
degli ombrosi germogli, danno il fiore;
né in me amore riposa.
Ma gravido come il vento di Tracia
viene, dai lampi acceso
da Venere ispirato
intrepido, tenebroso scagliando
l’affilata pazzia, e sempre
potentemente il cuore ci sorveglia.

(Traduzione di Claudia Ciardi)

*I meli cidonii sono i meli cotogni. In greco antico prendono il nome dalla città di Cidonia sulla costa settentrionale dell’isola di Creta.

*Il tracio Borea è il vento del nord, la tramontana.

Ibico, fr. 286 P / Testo originale e traduzione di Filippo Maria Pontani da Lirici greci, a cura di Simone Beta, traduzione di F. M. Pontani, Einaudi, Torino 2008

A primavera i meli cotogni,
bevute l’acque vive dei fiumi,
fioriscono nell’inviolato
giardino delle Vergini;
sotto i tralci ombrosi dei pampini
fioriscono i fiori della vite.
Ma per me non dorme Amore
in nessuna stagione:
come la bora di Tracia infiammata di folgori,
così, messaggero di Cipride,
s’avventa con le sue follie ardenti
tempestoso, sfrenato: dalle radici
possiede l’anima mia.

(Traduzione di Gennaro Perrotta)

La versione di Salvatore Quasimodo pubblicata su “Pagine di poesia” / fb

Murales in parole greche – marzo 2023 / fotografia di Claudia Ciardi ©

Storie editoriali, sogni di persone

Edizioni storiche Sansoni e Vallecchi_foto di Claudia Ciardi ©

Un libro non è solo ciò che racconta. È fatto anche di una storia che lo precede, spesso anzi di molte storie. Nasce dai sogni di chi intende salvare un messaggio, di chi crede per quella via di contribuire alla rappresentazione del mondo. E poi ci sono intenti, affinità elettive, sintonie caratteriali che si scoprono in corso d’opera, destini che si intrecciano. Idee e persone impegnate a difendere legami, memorie, bellezza. Ogni cosa contribuisce all’impresa, in letteratura, come in arte, come nella musica. Il libro è una straordinaria condensazione di tutte queste sintonie.

Lo scorso autunno Laura Vargiu, divulgatrice infaticabile di letture e scritture, poetessa in organico alla giuria di diversi premi letterari, fondatrice del blog «Il ponte delle parole», ha pubblicato un invito alla riscoperta dei “libri antichi”. Ne è scaturita una riflessione che mi ha fatto nuovamente calcare le orme di alcuni progetti editoriali. Storie che ho avuto modo di vagliare durante le mie ricerche, in fase di collazione testuale o nella ricostruzione dei processi di stampa relativi a un titolo. Sono così affiorate tra le mie mani le vicende di giovani studiosi nell’Italia del secondo dopoguerra, fra Milano e Firenze, ma anche di personalità resistenti mentre il conflitto ancora imperversava. Episodi testimoniati da corposi epistolari nei quali è possibile seguire in dettaglio sodalizi e collaborazioni. La vita piena d’impegno di Lavinia Mazzucchetti, gli incroci, anche sentimentali, fra Cristina Campo e Leone Traverso oppure, andando ancora più indietro, la piccata corrispondenza di un D’Annunzio che lamentava con Fischer le imprecisioni nella traduzione tedesca della propria opera. Alle altisonanti rampogne del vate Fischer replicava sempre composto, misurato. Schermaglie fra signori d’altri tempi. In ciò riemergono le avventurose iniziative di Cederna, Lerici Editore, Ricciardi Editore, Vallecchi, Sansoni.

Riscoperte di Laura Vargiu nella storica collana economica di Rizzoli
A commento delle proposte editoriali di Laura Vargiu


Visionando alcuni dei titoli “antichi” che Laura Vargiu aveva nell’occasione riproposto, sono quindi tornata a pensare al libro come oggetto d’arte; non solo nel senso della rarità e del pregio di un’edizione, ma anche e forse più in quanto deposito evocativo di sensibilità. Del resto, la devozione di Laura per mercatini e piccole botteghe di librai indipendenti mette in luce proprio questa prossimità, le relazioni di un microcosmo sentimentale fatto di luoghi un po’ eccentrici e dei loro altrettanto estrosi custodi-cultori. Questi antri votati alla meraviglia sono vere e proprie isole di collezioni diffuse, snodi dove si riscoprono tesori perduti.

Chi non ricorda i vecchi libri Rizzoli, fra i primi tascabili economici, dalle copertine minimaliste: titolo-autore a caratteri neri su bianco (ingiallito) in carta grezza. I nostri genitori hanno adornato gli scaffali delle loro librerie con questa collana o con i primitivi Oscar Mondadori o con la mitica Medusa (sempre Mondadori). Chi non ha avuto in casa tutto il primo Pavese pubblicato da Einaudi?

Uno sguardo alla Medusa_immagine tratta dal blog di Maremagnum

Scelte editoriali non allineate, inattese, visionarie nella prima Piccola Biblioteca Einaudi

Storie, si diceva all’inizio. Di coloro che i libri li hanno pubblicati e del privato di tanti lettori. Nelle mie più recenti ricognizioni mi sono spesso soffermata su questi contatti emotivi, perché prima del conoscere (e del conoscersi) è il sentire, è l’attrazione per qualcosa che percepiamo somigliante a determinare la scelta di un percorso, un avvicinamento, quel travaso necessario a dar forma concreta all’immaginazione. Perché certe cose ci sollecitano, dunque «si fanno sentire prima di farsi conoscere» (per dirla con Yves-Marie André). È peraltro il tema di un bell’articolo sull’esperienza artistica che mi è capitato di leggere proprio in questi giorni. «All’utilità dell’erudizione son sempre più convinto debba precedere, succedere o accompagnarsi “il compiacimento de’ sensi, e il diletto delle passioni”», conclude l’autore. E infatti, ogni opera creativa non può compiersi né veramente diffondersi senza il più sincero e profondo attaccamento al sogno dell’arte.

Altri rimandi:

Non basta l’erudizione, l’arte deve scuotere i sensi (di Maichol Clemente su «Il Giornale dell’Arte», 1 febbraio 2023)

Uno sguardo alla Medusa (sul blog di Maremagnum)

Johann J. Bachofen – Il popolo licio (su un’edizione storica Sansoni)

In questo sito, la pagina dedicata ad alcuni miei percorsi nell’editoria: Mappe editoriali

Tra gli ultimi articoli dedicati da Laura Vargiu alle mie pubblicazioni si segnalano:

Hermann Broch e il suo “Il ritorno di Virgilio”

“Muor giovane colui ch’al cielo è caro”: in ricordo di Georg Heym

In ricordo di Konstantinos Kavafis: l’importanza delle parole

Terre nostre

In questo periodo, con l’avvicinarsi delle festività, assistiamo a una variegata offerta commerciale, anche nella cultura. Dopo il tempo sospeso e le interruzioni della pandemia è chiaro che si cerchino ripartenze un po’ in tutti i settori, ivi incluso quello creativo e dell’intrattenimento. Sebbene l’atmosfera anche adesso non sia delle più rosee, tra costi lievitati e meccanismi rallentati (la lunga coda delle incertezze scaturite dalle chiusure e rinfocolate dagli eventi internazionali) che impensieriscono operatori e fruitori.

Ciononostante, anzi proprio per le difficoltà che ancora persistono, è bello ricordare che sono in corso iniziative assai pregevoli nelle nostre province, le quali non riescono forse a raggiungere la risonanza di altri eventi, sostenute come sono da partnership pur importanti ma di non ampia esposizione mediatica. Appena fuori dalle “vie commerciali” troviamo tesori affascinanti e ricchissimi frutto di progetti ingegnosi, pieni di umanità e vivaci immaginazioni. In un quotidiano che mostra sempre e solo un volto arido e incline a disorientare, l’incontro con questi luoghi fa bene all’umore e alla mente.

Penso alla mostra in corso a San Giovanni Valdarno (Museo Terre Nuove e Museo della Basilica), Masaccio e Angelico. Dialogo sulla verità nella pittura (nell’ambito degli Uffizi diffusi), al Tiziano esposto in buona compagnia di Tintoretto e Veronese negli spazi del San Francesco di Cuneo (luogo pieno di suggestioni) e alla rassegna su Carlo Crivelli nelle sale di Palazzo Buonaccorsi a Macerata. Tre perle all’insegna della spiritualità, della vicinanza ai territori, di un raccoglimento necessario mentre la tempesta continua a scuoterci; tre antidoti contro un tempo richiuso su se stesso.

Il Valdarno (fra le altre eccellenze San Giovanni è anche la patria di Masaccio) in autunno e inverno mostra i suoi colori più affascinanti, e i sangiovannesi sono belle persone con il dono dell’accoglienza, come di solito accade nelle cosiddette “terre nuove” (grazie, amici, per l’utile catalogo che mi avete regalato e per esservi offerti di farmi da guida!).

Siate vicini alle vostre terre, perché c’è bisogno di radici, di memoria, di bellezza. Per risollevarsi c’è bisogno di immaginazione, non mi stanco di ripeterlo. È la nostra mente, l’energia della nostra mente che riversata all’esterno fa leva, scrolla, produce. Quando prima dell’estate sono andata in visita a Santa Maria a Monte ho visto molti “segnacoli” del progetto Terre di Pisa e ho pensato che queste iniziative messe in campo dai borghi per legare a doppio filo, arte, artigianato, piccole produzioni locali, turismo andrebbero vissute ancora di più. Vanno rese vive, nel senso di partecipate, bisogna divengano poli condivisi, aperti, cantieri di studio, ricerca, luoghi di confronto: musei, archivi, laboratori, scuole sono chiamati ad aprirsi il più possibile e cercare scambi, e auspicabilmente un’osmosi ampia, un’alleanza fra diverse progettualità territoriali. Perché c’è urgenza di creare lavoro, reclutare, assorbire risorse umane con immediatezza e certezza, non solo pensando al paio di concorsini da bandire ogni tanto, con i soliti metodi, le solite panie, esigendo dai concorrenti una formazione tutta a loro carico, impegolata anche quella e a rischio senescenza, rifacendosi a modelli ormai superati sul piano delle necessità economiche, della spinta tecnologica che non si può ignorare, dei profondissimi cambiamenti in atto in ogni settore.

Tornando sui tracciati del lungo percorso di studi neogotici e dei progetti messi in campo tra mostre e scritture in un confronto pluriennale, ho immaginato che ad esempio i Beni faro piemontesi potessero incontrare cammini d’arte e itinerari nei castelli di regioni limitrofe o anche lontane. Territori che verrebbero a intersecarsi, iniziative che ne genererebbero altre e potrebbero portare occupazione. Sul fronte delle materie umanistiche mi vengono in mente tante identiche possibilità di dialogo con altri settori scientifici e con attività di rilancio dei luoghi. Quando ad esempio ho partecipato alle giornate di Terra di Virgilio, nel mantovano, il programma aveva fatto da fulcro non solo ad altri eventi sulla poesia contemporanea ma anche a iniziative per il sociale, intrecciandosi con le visite ai beni culturali (dei bambini accompagnavano gli ospiti descrivendo i monumenti); giornate in cui città e dintorni si erano completamente aperte agli ospiti, determinando uno scambio di saperi e un coinvolgimento molto esteso. La socialità è un’altra dimensione importante che queste cose generano e di cui abbiamo estremo bisogno.

Penso ci siano tante cose da fare, soprattutto se vogliamo offrire qualche prospettiva concreta ai più giovani; propinare loro un percorso scolastico standard preconfezionato, che in Italia per giunta è ad alto rischio di impaludarsi, a maggior ragione ora che lo scivolamento in zone di povertà non è più un’ipotesi remota, significa voltare le spalle. Ci vogliono idee, flessibilità mentale, bisogna capire la portata dei mutamenti in atto e interpretarli. Senza immettere queste cose nei percorsi formativi, senza conteggiarli in risorse, sarà ben difficile creare altro lavoro.

Intanto immergersi nei nostri borghi, avvicinare i luoghi della spiritualità, stare accanto a cose belle e profonde aiuta a riflettere.

San Giovanni Valdarno, Museo della Basilica
Beato Angelico, Annunciazione, 1430-1432
  • Masaccio e Angelico, Museo delle Terre Nuove/Museo della Basilica a San Giovanni Valdarno, fino al 15 gennaio 2023
  • Le relazioni meravigliose, Carlo Crivelli a Palazzo Buonaccorsi di Macerata, fino al 12 febbraio 2023
  • Tiziano, Tintoretto, Veronese, al San Francesco di Cuneo, fino al 5 marzo 2023

Hugo von Hofmannsthal in Italia


Apparizioni di ottobre. Rinascita di Hugo von Hofmannsthal in Italia.
Il nome di un grande scrittore austriaco torna ad affacciarsi nel nostro panorama culturale con alcune prose inedite pubblicate da Via del Vento edizioni nella collana Ocra gialla. La vita militare e le inquietudini di un giovane soldato, il raccoglimento che ispira un paesaggio di montagna, due serie di appunti in cui si spalancano poetiche meditazioni, a tratti surreali, di solitari promeneurs in cerca di una disperata vicinanza alla natura nell’incanto di giardini all’imbrunire. L’incompiutezza della scrittura di questi abbozzi è solo apparente. Hofmannsthal ha riversato moltissima parte delle sua creatività in brogliacci su cui non ha mai apposto la parola fine. E tuttavia, si scopre che è uno dei caratteri peculiari del suo modo di essere scrittore. Gli stessi racconti brevi offrono conclusioni precarie che quasi lasciano interdetto chi legge; eppure contengono infiniti mondi.

Hofmannsthal ha avuto col nostro paese un durevole legame affettivo e culturale. Sua nonna, Petronilla di Rho, madre di suo padre, era un’italiana. Da lei, a Pusiano, in provincia di Como, il nostro giovanissimo ha trascorso diverse delle sue estati, trovando l’ispirazione per i primi lavori di teatro.
Come non ricordare poi la turbolenta amicizia con Gabriele D’Annunzio, che lo ospitò nella sua villa di Settignano (Firenze), e le tante letture di autori italiani essenziali alla sua formazione.
Un amore filtrato anche nell’interesse di una generazione di germanisti e letterati geniali, poco più che ventenni nel secondo dopoguerra, che con passione si sono dedicati a far rivivere la voce di Hofmannsthal attraverso le mirabili imprese editoriali del diciottenne Cederna a Milano e poi di Vallecchi a Firenze.

Siamo lieti di festeggiare con un lavoro così significativo il trentennale della casa editrice fondata da Fabrizio Zollo.

Grazie a chi, quando ancora da marzo a maggio incombevano le zone arancioni e rosse, ha creduto in me, nella mia ricerca, attivandosi per concedermi le deroghe necessarie affinché questo lavoro vedesse la luce. Grazie all’Archivio del Teatro Stabile di Torino e al polo umanistico dell’Università di Pisa.
Non dimentico i vostri nomi, voi che in quei giorni avete risposto e vi siete mossi per me con sensibilità e tempestiva premura. Mi è arrivata tutta la vostra bella energia. Hofmannsthal è stato un incredibile messaggero dei momenti che abbiamo attraversato. L’umanità è viva ed è una cosa meravigliosa. Viva tutti noi!


Si veda anche:

Hugo von Hofmannsthal – Poesie

Sagep Editori: trilogia neogotica

* È in fase di stampa il volume collettaneo degli interventi tenuti dai relatori al convegno per il bicentenario schelliniano, dove si sono raccolti aggiornamenti e riflessioni sullo studio dell’archivio del grande geometra-architetto doglianese. Auspicando un consolidamento delle riaperture nel settore culturale, divulgheremo qui il lancio della pubblicazione e ogni iniziativa collegata.

Un convegno internazionale per il bicentenario della nascita di Giovanni Battista Schellino (Dogliani, Ritiro della Sacra famiglia, il 1° dicembre 2018). Nell’ambito del progetto del CuNeo gotico, con il patrocinio della Fondazione CRC, il sostegno del Politecnico di Torino e la partecipazione di Andrew Graham-Dixon
(storico dell’arte e broadcaster per la BBC).

Coordinatore scientifico: Prof. Daniele Regis

Referenti ufficio evento: Architetti Claudia Clerico e Silvia Valmaggi

Responsabile segreteria organizzativa: Dott.ssa Monica Porasso

“Un cammino letterario intorno a G. B. Schellino dagli inediti dell’archivio” (A cura di Claudia Ciardi). Il racconto del modus operandi di un architetto che, nonostante nel corso della sua vita si sia sempre misurato con gli spazi e i tempi della provincia, seppe ispirarsi a fonti e linguaggi di respiro internazionale, imprimendo e amalgamando al paesaggio della Langa un suo personalissimo tracciato.

Su «Il Giornale dell’Arte» (dicembre 2018) due pagine dedicate al Convegno internazionale su Schellino, con Andrew Graham-Dixon e tutti i relatori.

Per una panoramica completa delle segnalazioni uscite sui quotidiani si rimanda alla rassegna stampa di “Margini in/versi” su facebook.

La clip di lancio del progetto sul canale YouTube “margini e miraggi”.


Il CuNeo gotico secondo Enzo Biffi Gentili nella recente antologica sull’opera di Michele Pellegrino (Cuneo, luglio-ottobre 2018).

Altro su fotografia, architettura, territorio nei seguenti articoli di «Margini in/versi»:

Tre mostre fotografiche per Schellino

Michele Pellegrino – Una parabola fotografica

Michele Pellegrino – Alta Langa, l’altra collina

Torino capitale della fotografia

La fotografia di Riccardo Moncalvo

Roberto Gabetti – Poetiche dell’architettura in fotografia