Laureata in lettere antiche, fondatrice e autrice del blog «Margini in/versi».
Osanno il Kaddish di Allen Ginsberg.
Cuore greco-berlinese, il vento mi convertì alla letteratura.
I miei libri:
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Vissi d'arte:
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I am indexed on “edcat,” the database of artist publications:
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------------A pocket literary biography------------
Claudia Ciardi was born in Pisa on 6 October 1981. Her education fluctuates and borders on ancient literature, German studies and the economics of cultural heritage. In life she is dedicated to editorial consultancy and is a photography assistant. The comparison between images and words, the exploration of contacts between verbal and figurative forms, up to self-taught painting have inspired several of her most recent collaborations. She mostly ignores Renaissance epilogues, remaining a Greek-Gothic. What Cristina Campo expressed, that translating is writing, is true in her. And writing is writing like “a rose is a rose is a rose”.
La scelta non poteva cadere su un’immagine più felice. Swanbook e “Il Sirmionelugana” attraverso l’antologia dei poeti vincitori, premiati e menzionati del 2022 rendono omaggio all’idea della navigazione, metafora longeva e potentissima, per una lode alle arti che ha il suo centro nella riviera gardesana. Un battello che salpa dalle acque del lago per unire idealmente mondi, energie, aspettative, simbolo di pace e di rinnovata (e ritrovata) creatività. Fra gli autori che la giuria ha ritenuto meritevoli di essere premiati, il libro contiene tre delle mie poesie in concorso.
È già un paio di volte che mi accade di documentarmi sulla ricostruzione in Ucraina. Oggi mi è capitato che mi chiedessero se la guerra era finita. Cosa? Dove l’avete sentito? Rispondo io. E mi fanno: Non hai visto la delegazione che è andata a firmare per ricostruire? No. Comunque la guerra non è finita.
Anzi, da qualche giorno aleggia di nuovo l’incubo nucleare con la questione dei bombardamenti a Zaporižžja e la notizia che il gas sarà tagliato fino all’inizio di settembre (Nord Stream chiuso, ufficialmente per manutenzioni). In via più plausibile, ogni volta che c’è un’iniziativa sgradita a est – annessioni Nato, invio di armi, tavoli per la ricostruzione – la risposta non si fa attendere: grano bloccato, un attacco missilistico particolarmente distruttivo, centrali nucleari che si riaffacciano nella contesa. Stavolta, chiusura del gas da subito, preceduta dalla caustica dichiarazione di Medvedev che poche ore prima aveva liquidato l’intera classe dirigente europea come una compagine di inetti.
No, cari ragazzi miei, la guerra non è per nulla finita.
D’altro canto, la domanda e la conseguente discussione mi hanno fatto tornare all’inizio di luglio, quando a Lugano si è tenuta una conferenza per la spartizione delle zone da ricostruire. Non ci avevo dato molto peso, ma la cartina che mi era venuta sotto gli occhi qualche interrogativo me l’aveva suscitato. Come si poteva e si può parlare di ricostruzione mentre ancora infuria la guerra? Cioè, pensare a ricostruire non quando ormai gli esiti sono chiari, tanto da poter mettere sul tavolo piani certi, cronoprogrammi, risorse entro un quadro politico assodato, scaturito da un evento. Ma farlo molto prima, nella totale incertezza. Sarebbe un messaggio rassicurante, di solidarietà? Siamo sicuri? O forse l’ennesima presunzione, quel tarlo che purtroppo a ovest sembra infestante, di buttarsi nelle cose senza considerare le effettive condizioni in cui si opera. Da questo punto di vista la mia riflessione si collega alla precedente sulla fine delle illusioni di massa. E tra qualche rigo ci voglio tornare.
Prima però intendo concludere questa parte ricordando che nell’occasione della conferenza svizzera di luglio all’Italia sarebbe virtualmente toccata la zona di Donetsk. Forse la più problematica, anzi senza forse. Perché lì la guerra c’era da prima che scoppiasse nel resto dell’Ucraina. Otto anni di martirio nell’indifferenza del mondo – 268 bambini uccisi, altrettanti e più orfani di genitori, feriti e senza cure, costretti a star lontani da scuola perché esposti al tiro dei cecchini. Eppure delle associazioni di volontariato italiane erano presenti, alcune hanno anche girato drammatici reportage lanciando un grido d’allarme che nessuno ha raccolto – in tal senso l’assegnazione al nostro paese mi trova pienamente a favore, avrebbe un suo perché, una certa coerenza, per quanto sia una missione davvero ostica, che implicherebbe grande, grandissimo equilibrio soprattutto nella gestione politica e diplomatica. Ma questa precoce autoinvestitura mi lascia comunque perplessa. Sensazione che oggi torna insieme a tutta la mia precedente perplessità. Cui si aggiunge un’altra domanda: i Russi cosa pensano al riguardo? Ossia che ci arroghiamo il diritto a ricostruire sostanzialmente seduti a un tavolo unilaterale. Ma sì, i Russi staranno a guardare, proprio come hanno fatto in questi ultimi mesi, mentre noi diciamo a noi stessi: qui ci saranno queste delegazioni, qui invece si farà diversamente ecc… Siamo sicuri che funzioni in questo modo?
Infine, come costruisci la tua casa mentre fuori c’è tempesta?
L’iniziativa sarebbe ancora lodevole se funzionale a spingere verso un componimento decisivo del conflitto. In un quadro già avviato, ormai pressoché risolto. Ma noi non siamo nemmeno lontanamente a questo stadio, a parte le dichiarazioni a giorni alterni sulla disponibilità a negoziare o meno. Quali passi avanti nelle trattative di pace o presunte tali sono stati fatti?
Ed Henry Kissinger, questo quasi centenario che di recente è tornato a parlare con assennatezza, come anni fa, come negli ultimi mesi, ancora non lo ascoltiamo. Si dà invece il caso che questi signori del passato abbiano dato prova di essere molto più ragionevoli dei loro pupilli, che lo sono soltanto per un fatto generazionale, non certo per virtù acquisite (gli attuali settantenni alla guida oltreoceano). Rileggiamolo Kissinger: «Gli Stati Uniti sono sull’orlo di una guerra con Russia e Cina. È una situazione che in parte hanno creato Washington e la Nato, senza alcuna idea di come tutto ciò andrà a finire, o a cosa dovrebbe portare». (Dichiarazione apparsa sul Wall Street Journal, agosto 2022). Uno stato cuscinetto fra Russia e Occidente, disinnescare, raffreddare, fare qualcosa di controllabile dalle due parti, non un gioco delle parti, tenere al riparo la popolazione, grazie Henry! Ecco come bisognava agire, molto prima. Novantanove anni, l’unica mente lucida. Invece ad oggi abbiamo solo un massacro senza fine e l’incubo di un’enormità che ci tallona.
Ironia della sorte, ma qui adesso non ride più nessuno. Mentre andiamo ai tavoli di una paradossale ricostruzione (in piena guerra) la Toscana è stata travolta da un evento disastroso che, seppure di natura diversa, per i danni che si è lasciato dietro è almeno in parte assimilabile a un bombardamento. Tanti dei nostri alberi secolari sradicati, uccisi dalla furia della tempesta; quale tremenda metafora di ciò che attraversiamo, una metafora reale, viva e sconvolgente che ci riempie gli occhi, ovunque. Quindi, sul tema della ricostruzione ne avremmo di che riflettere e occuparci, anche alle nostre latitudini.
No, cari ragazzi, la guerra non è ancora finita.
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Alcuni fatti degli ultimi giorni sul fronte ucraino, che dalle nostre parti sono stati anche di emergenza meteoclimatica. Leggendo in sequenza si comprende a che livello di incomunicabilità siano gli attori in campo.
20 agosto/ giorno 178
Deputato Gb: la Nato deve intervenire se c’è fuga radioattiva a Zaporizhzhia
Media: abitanti russi lasciano Sebastopoli dopo le esplosioni in Crimea
Arera, Besseghini: oscillazioni del costo del gas, strategia chiara della Russia
Illeso il sindaco di Mariupol dopo tentato omicidio. Lo riferisce l’agenzia di stampa Tass
Mosca: la guerra è iniziata per minacce inaccettabili da Kiev
Onu: sbloccare export da Russia di alimenti non sanzionati. Appello di Guterres durante la visita a Istanbul
19 agosto/ giorno 177
Zelensky ringrazia Biden per nuovi aiuti militari
Nato: ad agosto incontro Finlandia, Svezia e Turchia su allargamento
Tensioni in Lettonia per la rimozione di monumenti sovietici
A Londra Saatchi Gallery cancella una mostra d’arte ucraina organizzata da un russo
In una lettera all’Onu Mosca denuncia “provocazioni” a Zaporizhzhia
Gazprom: stop ad unica turbina di Nord Stream il 31 agosto per 3 giorni di riparazioni
18 agosto/ giorno 176
Zelensky: “Negoziati possibili solo se i Russi si ritirano”
Mosca: la Russia schiera missili ipersonici a Kaliningrad
Rutte a Stoltenberg: bisogna ancora armare l’Ucraina
Kiev: raid russo su condominio Kharkiv, il bilancio sale a 12 morti
Russia: chiuderemo la centrale di Zaporizhzhia se gli attacchi continuano
Erdogan proporrà il cessate il fuoco nell’incontro a Leopoli
La mostra cancellata – Ancora ingerenze nell’arte, l’unica patria che dovrebbe restarci libera.
Riporto per intero la notizia da «Rainews» (19 agosto 2022)
La Saatchi Gallery di Londra ha cancellato una mostra di arte contemporanea ucraina dopo una protesta sui social media dovuta al nome del responsabile dell’organizzazione dell’evento, il banchiere e collezionista d’arte russo Igor Tsukanov, assistito dal collega russo Marat Guelman come consulente. “The Ukrainian Way” avrebbe dovuto esibire le opere di 100 artisti ucraini presso la galleria dal 3 all’11 settembre con tanto di asta di opere. Tra i partner l’M17 Contemporary Art Center di Kiev e nel comunicato stampa era indicato che tutti i proventi sarebbero andati a “enti di beneficenza che sostengono l’arte e la cultura ucraine, tra cui l’Art for Victory Fund e l’Ucraino Emergency Art Fund”. “La Saatchi Gallery non era l’organizzatore o il curatore di ‘The Ukrainian Way’ né era coinvolta in alcuna comunicazione diretta con gli artisti o i collezionisti”, ha affermato l’ufficio stampa della sede in una dichiarazione a The Art Newspaper, citato da Cnn. La galleria aveva donato il suo spazio con l’obiettivo di “promuovere artisti ucraini e generare fondi di beneficenza a beneficio dell’Ucraina” e il suo “coinvolgimento nel progetto era basato sul coinvolgimento delle principali parti interessate ucraine”, continua la dichiarazione. “Abbiamo ricevuto assicurazioni da queste parti interessate che il progetto era da loro pienamente sostenuto. Una volta che è diventato evidente che il sostegno di alcune di queste parti chiave era stato ritirato, insieme alle segnalazioni di preoccupazioni sollevate dagli artisti negli ultimi giorni, la Saatchi Gallery ha immediatamente preso la decisione di annullare la mostra di dieci giorni e ritirare il suo sostegno al progetto”. La galleria ha annunciato che lavorerà con l’Istituto ucraino, che promuove la cultura ucraina a livello internazionale, per “trovare il modo di mostrare le opere degli artisti ucraini, sensibilizzare sulla situazione inaccettabile in Ucraina e generare fondi per sostenere la cultura ucraina”.
Il viaggio di massa è una pia illusione della nostra epoca mistificatoria. Eh, sì, a quanto sembra stiamo trascorrendo le vacanze più care da cinquant’anni a questa parte. Ma diciamoci la verità, il tanto sbandierato low-cost, destinato a movimentare legionari con poco tempo a disposizione in cerca di traiettorie turistiche, non è mai stato, neppure quello, alla vera portata di tutti. Tutti, come mi ripeteva la mia professoressa d’italiano al liceo, non vuol dire un bel nulla. Il tutti amato da certa sinistra autoreferenziale ed elitarissima è una categoria sbrigativa e furbina che non definisce nessun soggetto e oggetto al suo interno – anzi è per lo più un interno destinato a restar vuoto. Adesso pure scaduto.
Che il meccanismo si è rotto, ce lo mostrano i tanti crescenti disservizi che condizionano il nostro quotidiano. A partire dal trasporto pubblico locale – aumenti pesanti nella bigliettazione di bus e metro – un extraurbano valido per circa un’ora di viaggio ormai costa da 2,60 euro a 3,50 euro – settore che sconta tagli netti in termini di corse e tratte servite. Eppure, si era annunciato che bisognava in ogni modo incentivare le persone a utilizzare di meno la macchina, perché siamo a un punto di non ritorno e stiamo letteralmente morendo d’inquinamento. Il dopo covid, si diceva, sarebbe stato il periodo della presa di coscienza, del cambiamento delle nostre abitudini. Ma in Italia il costume di regalare la macchinina nuova al nipotino neodiciottenne evidentemente non tramonterà mai! Chi non può si arrangi! Questo costume influenza anche i colloqui di lavoro, ma nessuno lo dice: lei è automunito? Eh, allora…
L’unica cosa che negli ultimi tre anni ha scandito le riaperture (un pendolo delirante che mi domando come sia stato possibile accettare senza una vera protesta), l’unica aspettativa nutrita con assoluta enfasi, è stato l’agognato pronti-partenza-via; di anno in anno, a dispetto di una pubblicistica alquanto incoerente e fastidiosa, in tono sempre minore. Fatichiamo, ma mostrarsi funamboli sull’orlo del baratro è stato impagabile!
Si era detto, facciamo uno sforzo, rinunciamo a qualcosa di ciò che nutre il nostro sconfinato egoismo… Ora ci troviamo a mettere in conto gli scioperi a tappeto nel settore EU dei trasporti, riflesso della situazione di disagio appena descritta, e se si aggiungono i danni da meteo tropicalizzato, non so dove andiamo. Avremmo pur potuto fare una riflessione. E invece, aeroplanino low-cost (che low-cost non era più già prima del covid), tanto per le bassissime aspirazioni che orientano il nostro vivere va benissimo, ancora un po’ d’inquinamento massivo a corroborare gli eventi, ed ecco la felicità a prezzo di favore, almeno così sembra. Nella finzione che quello che si sta preparando, anche in termini di tempesta economica alle porte – per non dire della guerra, ma noi ora siamo in vacanza – non ci sia o non ci toccherà. Perché certe persone presumono ancora di non essere in alcun modo toccate.
Buon per chi sta affrontando (all’apparenza!) con disinvoltura tutte le voci di spesa al rialzo (mezzi di trasporto, bollette, rate, tasse…). Fosse solo un problema di villeggiatura. Certuni sembra che vivano su Marte – non scossi dai problemi, puntualmente aiutati, sostenuti… Del resto, è da tanto che si pensa a Marte anziché alla Terra. Infatti, che vogliamo che sia. Un po’ di raffiche di vento tra i 140 e i 220 km/h, tanto siamo su Marte.
Una sera a Padova, poco prima dell’inizio di questa torrida estate, mentre camminavo in centro, dopo un pomeriggio di afa anomala, si è alzato un vento pauroso. È stato un fenomeno repentino che, se avesse investito la città con più forza, avrebbe provocato danni e feriti. Nonostante mi fossi subito messa in cerca di un riparo, quando ci si trova nel bel mezzo di una cosa del genere – e mi è già capitato altrove sia in montagna che in città – si hanno solo pochi secondi a disposizione. C’è da sperare di non essere in un luogo troppo aperto o che il fenomeno perda presto d’intensità. Il mattino seguente ho visto le immagini della devastazione nella campagna veneta, dove quel vento si era abbattuto con molta più foga. Decine di cedri secolari erano stati sradicati e scagliati via, come fossero ramoscelli.
In tutta sincerità, con i problemi che si abbatteranno su di noi tra non molto, preferisco aver vicini i miei miseri terrestri, che hanno avuto le loro umane difficoltà dovute a tre anni di chiusura, al caro tutto, ai regressi che questa indicibile situazione ha comportato nelle vite di ognuno. Nel frattempo, anziché continuare con i castelli in aria, hanno capito un po’ più di cose e perciò sono in grado di ragionare sulla vita in modo più obiettivo e sincero. Agli altri dico, vi prego, non consigliatemi “il metodo” Ryanair, le vacanzine striminzite, e in generale un qualcosa che non c’è più e che a voi sembra ancora durevole, e peggio ancora, fattibile. Finalmente, timidamente, qualcuno ha detto che così non si riuscirà più a spostarsi, prevedendo al contrario l’aumento di treni per i collegamenti in tutta Europa e fuori dal continente. Nel futuro del mondo, se vorremo che ci sia un futuro, bisognerà ritrovare ritmi lenti, bisognerà saper assimilare e rispettare lo spazio che attraversiamo, se vogliamo inquinare di meno e trarre una vera esperienza da ciò che visitiamo, dove andiamo a mettere i nostri piedi che sono il primo strumento di contatto con la terra. Il che implicherà anche una rivoluzione nel lavoro, con maggior attenzione ai tempi di riposo del lavoratore; i lavoretti, lo sfruttamento brado del personale nei servizi, il falso low-cost, nell’attuale quadro non hanno esiti. Per quanto mi riguarda, coi Marziani non ci parlo più da tanto – a fine conversazione, non c’è mai vero scambio e ci si allontana da loro sentendosi sempre inadeguati, sbagliati e stupidi. A maggior ragione adesso! E tuttavia, poveri i miei transfughi, che tra qualche settimana saranno costretti a tornare sulla terra e a restarci per molto tempo.
La parola di un artista non è qualcosa di accessorio alla sua opera. Non è una testimonianza che non possa viaggiare svincolata dalle immagini che ha prodotto.
Nella ricerca sul lascito manoscritto di Paula Modersohn-Becker questo è stato il principio che ha mosso il lavoro fin qui svolto. L’idea che le riflessioni affidate all’epistolario e al diario vivano di vita propria ha avviato uno scavo filologico negli usi lessicali e nelle suggestioni dell’autrice. Si sono pertanto rintracciati sfondi emotivi, echi e inedite corrispondenze.
Il numero 45 della rivista «Incroci» mi ha permesso di presentare i primi risultati di questo studio. Un esercizio di restituzione in lingua italiana della voce di un’artista che si è cercato di far affiorare nella sua spontaneità, senza forzati paragoni con la sua produzione pittorica. Non viene offerto nessun percorso prestabilito. La coloritura verbale con la sua intrinseca capacità evocativa è un elemento autonomo in grado di orientare la sensibilità del lettore-osservatore. Toccare le parole, esserne toccati, senza preconcetti, senza esiti già definiti.
Un progetto a cura di Eleonora Beltrani e Claudia Ciardi.
Dal greco χελιδονισμός «canto delle rondini», da χελιδών -όνος «rondine», chelidonismo è il sostantivo adattato in italiano che indica un tipo di canzone, conservata dall’erudito greco Ateneo, che i ragazzi di Rodi intonavano in primavera, recandosi di casa in casa ad annunciare il ritorno delle rondini e raccogliendo doni.
Gennaio la luna dei lupi, maggio la luna dei fiori. Le soglie dell’anno, l’inverno in cui tutto riposa, aspettando che il seme si schiuda. In quei primi giorni, se il nostro intento è sufficientemente vicino al nostro centro, affiora talvolta l’immagine di cosa saremo.
Per un periodo della mia vita ho scritto sui miei diari il giorno in cui per la prima volta mi capitava di ascoltare il canto delle instancabili migratrici. Dopo lungo tempo sono tornata a questa abitudine nel 2020. Nei silenzi delle chiusure, nella percezione indistinta ma pure a tratti lucidissima che molte cose non sarebbero più state uguali a prima, il 17 aprile scrivevo: «Oggi sono arrivate le rondini».
Andando a ritroso, studentessa, il 10 aprile del 2006 ritrovo questo appunto: «Mi sorprendono le prime rondini in mezzo a Borgo». In quei diari passati ci sono anche molte altre confessioni, scampoli di poesia, pensieri raccolti alla fine di una giornata, che mi restituiscono un ritratto vivido di me ventenne. Sembra di riascoltare la voce di una figlia che parla da lontano.
A scorrerle di nuovo ora, quelle frasi mi dicono di un infaticabile prodigio che prima non comprendevo, la cui segreta intelligenza, adesso, mi scuote come un’assidua rivelazione che aveva bisogno di tempo, di comprensione e poi ancora tempo, per giungere a compimento.
Ad esempio se rileggo un passo che avevo tratto da Michail Prišvin (avevo per le mani un suo romanzo, Ginseng): «Riesce a ricordarmi che la mia radice di vita è salva, solo per un po’ è rimasta senza crescere». Che stupefacente verità, mi dico! Quanto questa riflessione coglieva e avrebbe colto il mio incedere un po’ stentato di non rari momenti. E poi, l’intensità delle cose greche in cui vivevo ancora completamente immersa: «Porto una bella forma di parole, un canto in luogo di un discorso». Qui è Solone citato da Plutarco.
Infatti, rileggermi è canto. Rivado ai nomi, alle date, ai momenti vissuti; una nevicata in città, un temporale che mi ha colta per strada, i tramonti guardando le cuspidi di San Francesco e i tetti intorno che sembravano toccati dal fuoco.
Lì era già deposta ogni parte del mio essere, chino e intento a raccogliersi. Iside e Osiride erano una sola persona, entrambi unità, entrambi dispersi in frammenti. Né una sola lacerazione si sarebbe consumata ma più volte le tante rotture avrebbero scaturito nuove parti e la necessità di ricominciare daccapo a cercarle. E tutto ha avuto un senso, anche quello che si faticava a comprendere e che ancora sfugge. Poiché tutto è stato per l’attesa, tutto dunque si prepari alla nascita.
La dinastia degli Asburgo accrebbe il suo potere territoriale e politico attraverso una serie di grandi matrimoni, giustificando questo motto. Si tratta di un esametro latino attribuito a Mattia Corvino, re d’Ungheria, mentre secondo altri lo avrebbe coniato Federico III d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero.
Nel tempo delle narrazioni rovesciate e dei monopoli culturali, mentre ci si sforza di pubblicizzare tutto come accessibile e facilmente acquistabile, la conflittualità aumenta. E mentre gli eventi premono e accelerano, chi è alla guida sembra voler puntare i piedi, scongiurando così di esser superato dal tempo – lui crede.
Eppure, storicamente, le esperienze più longeve sono state anche quelle che hanno goduto di maggiore apertura ossia le compagini che hanno avuto un modello da proporre sorretto da una visione ampia e inclusiva. In simili imperi, non a caso, le guerre se non riuscivano ad essere disinnescate, quantomeno si accompagnavano a strategie diverse per l’assimilazione, il consolidamento, la compresenza dei popoli. Solo nella fase di declino e caduta il ricorso alla violenza diveniva centrale e perciò anche fatale. Quanto più un impero si fonda sul conflitto, più rapida sarà la sua scomparsa.
Dunque, in altre parole. Meglio gli sposalizi delle guerre. O in altre parole ancora, fate l’amore invece di accopparvi.
E la bella Teodolinda? Chi era costei? Principessa bavara sposò prima il re longobardo Autari e, una volta morto il suo primo consorte, divenne moglie di Agilulfo, duca di Torino. Morto anche Agilulfo, Teodolinda assunse su di sé gli impegni di governo e il suo regno prosperò, conoscendo un periodo di pace. Donna al potere in un periodo storico ritenuto pregiudizialmente di regresso e immobilismo, il suo è un esempio di realizzazione ed emancipazione femminile, nonché di intelligenza nell’aver saputo interpretare al meglio il proprio ruolo commisurandolo alla sfera pubblica e privata.
Donna di polso e anche fine e capace stratega politica per essere stata la prescelta da due tra i più influenti personaggi dell’avventura longobarda in Italia, ha saputo conservare il potere, tenersi alla larga dalle guerre, ritagliarsi una pagina degna e affascinante tra le vite dei grandi.
Arnold Böcklin, Euterpe, 1872 Hessisches Landesmuseum, Darmstadt
La Grecia è il mio oriente. L’oriente come dimensione dell’anima, che è ἄνεμος [ánemos , soffio, vento, passione].. Una patria letteraria, utopica e tuttavia, se si vuole parli davvero a chi la contempla o l’attraversa, proprio nella sua forza immaginativa, è chiamata ancor più a confrontarsi con le sue radici reali.
Mentre la nostra cultura al di qua del mondo spesso tende a guardare l’altra riva sotto l’influsso di luoghi comuni, selezionando aspetti addomesticati e funzionali a confermarne sostanzialmente la propria estraneità. Insomma all’occidente, quindi a una cospicua parte della cosiddetta nostra intellighenzia, piace solo quel che la rassicura e rinsalda nelle sue posizioni.
Che questa lettura delle culture orientali sia parte integrante della storia del nostro pensiero è un fatto. Ed ha pure il suo bello e ha espresso un potere creativo che merita di essere ulteriormente esplorato. Si vedano i tanti volti assunti dall’orientalismo in Germania fra Ottocento e Novecento. E ancora, la questione orientale sempre accesa e fluttuante nella politica dell’impero asburgico, tra assimilazione delle culture est europee e penetrazione balcanica, in una catabasi-anabasi fino alle porte greche e ottomane.
Il rischio è tuttavia scambiare la storia del pensiero con le forme e i contenuti reali, perdendo di vista le vere implicazioni di un incontro basato su aspetti che non si ammantino di abbellimenti strumentali o travisamenti.
La mia traduzione di Konstantinos Kavafis simbolicamente ha inteso ripercorrere queste tracce. Perché la Grecia moderna è reale, col suo portato di cultura e di storia che affonda sì nella classicità ma che trae il proprio respiro anche da molte altre presenze. Aggiungo che la Grecia antica e moderna bisogna farsele spiegare dai Greci.
Il rapporto culturale che ho sviluppato con la Lombardia da quando mi sono avvicinata alla Fondazione Testori nel 2013 è stato per me di grande stimolo.
Amore a prima vista, scambio continuo, intesa totale.
Grazie Lombardia! In particolare, grazie Brescia, Mantova, Milano. E grazie Alessia Rovina – lo so che mi leggi anche qui! – per aver avuto l’intuizione dell’«Argonauta». La tua vivacità e passione per l’antico mi sono venute incontro in piena pandemia con inaspettata delicatezza e non casualmente, nanu mia, bambina mia, ti sei materializzata da un luogo a me così caro.
Capacità imprenditoriale, lungimiranza e passione per i bei progetti culturali nel segno del tipico pragmatismo lombardo mi hanno formata, arricchita, offrendo spunti sempre rinnovati alla mia scrittura.
Tutto, tutto ma proprio tutto è stato incredibile. Dai primi cammini mossi in autonomia tra mostre e centri culturali, dalle aperture manifestate alla mia creatività per poi approdare alle coinvolgenti campagne fotografiche sul gotico.
La cesura imposta dal covid, con quello che purtroppo ne è conseguito per ognuno di noi, non scalfisce la straordinarietà di questi anni. Direi anzi che ancor più la incide come esperienza unica di un decennio per me assai importante.
L’ “epoca delle rovine”, così la chiama Roberto Carifi mentre ripensa ai giochi della propria infanzia «in uno spiazzo sterrato e desolato, circondato da edifici sventrati e cadenti», orla e scandisce l’infinito istante che ha lacerato la vita e la parola, e aggirandosi sulle loro membra disperse continua a farvi risuonare la sua eco. Epifania di un senso interrotto che, al deflagrare di ogni cosa, rivendica per sé un nuovo spazio nel mondo.
C’è una consonanza, un accordo sonoro e sensibile, tra ciò che abita l’infanzia di Carifi, non a caso studioso e traduttore di una parte cospicua della produzione poetica tedesca, e l’impressione che Sebald riserva a se stesso da bambino:
«Ho trascorso l’infanzia e la giovinezza in una zona che si estende lungo il margine settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi difficile che, di quell’epoca segnata dalla distruzione, io possa aver serbato impressioni fondate su eventi reali. Eppure ancor oggi, quando guardo fotografie o documentari del periodo bellico, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori che non ho vissuto, cadesse su di me un’ombra alla quale non potrò mai sfuggire del tutto. […] Le immagini dei sentieri di campagna, dei prati rivieraschi e dei pascoli montani vengono a confondersi davanti ai miei occhi con quelle della distruzione, e – in maniera perversa – sono proprio queste ultime, non gli idilli infantili divenuti ormai assolutamente irreali, a darmi un senso di casa, forse perché rappresentano la realtà più potente, la realtà dominante dei miei primi anni di vita. Oggi so che allora, mentre ero disteso nella culla sull’altana della nostra casa di Seefeld e, socchiudendo gli occhi, guardavo in su verso il cielo bianco-azzurro, dappertutto in Europa erano sospese nuvole di fumo». (Sebald, o. c., pp. 74-76)
(Claudia Ciardi)
Dal mio articolo“Appunti sulla teoria della distruzione di Winfried Sebald” (dicembre 2010).
Ricordo un cambio repentino di luce, come un’anima che entri in un’altra. La città mi salutò così. È così che ho attraversato il golfo di Trieste. E la sera bevevo un caffè in Viale XX Settembre sotto un cielo lampeggiante. Per ore la tempesta ha continuato a indugiare e sembrava che tutto il golfo danzasse uno strano rituale che non si decideva al compimento.
Nei giorni successivi ho incontrato un istriano, fulvo di capelli, che mi ha costretta a seguirlo e che in tutti i modi voleva farmi una cabala. Diceva di esser stato un esule, di venire da Pirano, additandomela sull’orizzonte. In quel momento la luce che la illuminava era di nuovo così enigmatica da dipingermela come una scheggia di un altro mondo. Aggiunse poi che si sarebbe espresso sul mio destino non prima di aver giocato una dozzina di mani con le carte triestine, con le quali mi imbrogliò bellamente, perché faticavo a ricordarle. Né da parte mia ebbi voglia di applicarmi.
Quindi compitò su un foglietto numeri e date. Alle spalle avevo Miramare, la cui fatale presenza avvertivo sopra di me, intanto che seguivo la mano scarna del mio indovino. Pensai che il cabalista mi stesse prendendo in giro una seconda volta, ma il modo in cui mi affidò il biglietto dissipò in me ogni dubbio. In quel momento ebbi la certezza che l’adorabile ciarlatano sapeva il fatto suo.
Più tardi, una sera di fine settembre, un sentiero che porta sulle mura di Lucca, direttamente in uno degli affacci più belli della città, dietro il campanile di S. Frediano. Anche l’ora poteva dirsi la più propizia per girare in quel luogo. Sul tardi, quando il sole si posa obliquamente sopra le architetture e i monti e tutto il resto sembrano sciogliersi in un irrefrenabile trapasso. Ero tornata a camminare lì dopo il mio passaggio a Trieste, giorni intensi segnati da narratori d’eccezione, gente che con spontaneità, signorilità d’altri tempi, e perfino una sana follia, mi aveva donato un pezzo di sé: che Trieste sia una finestra sul mondo è vero non solo per l’intreccio di cultura ed eventi che vivono nei libri e continuano a scaldare il cuore della città, ma più ancora per la miniera di tipi umani in cui ci si imbatte. Mi ero lasciata indietro Miramare, il mansueto guardiano del golfo, il bambino bianco che si fa beffe del tempo, e mi ritrovavo a passeggio su questo scorcio di mura antiche, in una luce calda che ne alleggeriva i contorni. Dentro di me si fece avanti una presenza, quasi una vicinanza che rivendicava attenzione. Forse perché avevo ancora nelle orecchie le voci di chi nel mio viaggio mi era venuto incontro. Ma no, sentivo che era qualcosa di più forte. Non sono affatto metodica e raramente mi soffermo su targhe e iscrizioni. Eppure avvertii il preciso bisogno di voltarmi. Ridiscesi il sentiero e mi avvicinai al grande edificio bianco sulla destra, che sorgeva come un panno steso dietro S. Frediano. Possibile che sia una scuola? No, il liceo classico è in una strada vicina, non mi sbaglio. Provai una strana sollecitudine che mi provocò a leggere la targa commemorativa. Nella grande casa bianca, che per certi versi al tramonto ricorda il candore di Miramare e che guarda le alture al di là delle mura, azzurre come onde portate lì da un’insolita corrente, trovarono ricovero molti esuli dell’Istria. All’improvviso tutto mi divenne chiaro. Guardando là oltre, in quei momenti di strazio e sradicamento, magari più d’uno si sarà sentito confortato qualche attimo dal sole che veglia i bastioni, dove il verde cupo dei monti, che a tratti vira in blu, ricorda i dolci profili istriani. Sono rimasta senza parole. Mi sono venuti i brividi.
Anni dopo, una notte tra i carruggi di Genova, avrei avuto precisa conferma dei miei numeri, dei destini che vi si agitavano. Ad ascoltare di nuovo le cifre sillabate nel caldo soffocante di un’altra città, in ore incomprensibili e certamente non di questa terra, mi sono sentita quasi divelta.
(Claudia Ciardi)
* fotografie di Claudia Ciardi
È raro che in poche battute le persone si rendano disponibili a rivelare qualcosa di sé. Questo grado di profondità, raggiunto con inspiegabile spontaneità e immediatezza, l’ho sperimentato finora solo a Trieste.
Stralcio di corrispondenza con uno degli artisti triestini (ottobre 2014)
La follia abbatte il personaggio perché si impadronisce dell’anima, voglio difendere la mia anima e la mia persona perché nessuno lo farà mai.
Attualmente ho una mostra delle mie opere dove rappresento l’interno della grotta di mare a miramar, nel parco dove due amanti si incontrano come in sogno, sono stati Massimiliano e Carlotta sicuramente due spiriti, a suo tempo, che aleggiano, e forse due amanti che sognano di esserci. Folli son quelli che si lasciano travolgere dalle furie, io non voglio e se è successo nella mia vita non ero cosciente, pensa forse capirai.
Me – ottobre 2014
Quello che fai è molto bello. La tua grotta è un mondo incantato in cui i sogni di tanti vengono a darsi appuntamento.
È strano come la tua sfrontata esuberanza si richiuda all’improvviso. Ne resto quasi sconvolta.
Purtroppo la realtà è cosa assai ruvida e spesso distaccata da una più autentica comprensione. Però, finché siamo qui, è inevitabile viverla. Ma può anche essere bello abbandonarsi, se bello è ciò che ci afferra. A dircelo è qualcosa che ha a che fare con l’istinto, credo. Le sensazioni sono continuamente esiliate nell’epoca in cui viviamo, e questo è un male, male per la creatività, male per l’arte, male per la spontaneità dei rapporti tra esseri umani. L’aridità è la cosa da cui non vorrei mai essere dominata. E un artista, per sua stessa inclinazione, non può essere avaro di sé.
La tua anima la culla Trieste, lo ha già fatto per tanti. È generosa e calda come una madre, e ti sorregge. Non dimenticarlo. Te lo dice una forestiera, che ama guardare lontano.
13 ottobre 2014
Per fortuna la grotta sul mare esiste è reale non è un sogno quindi sono al sicuro dalla follia lontano lontanissimo tocco la realtà con mano ….. finché vivrò.