Donne nell’arte, donne per l’arte

Espressioni volitive e sguardi penetranti. Le donne nell’arte irradiano una bellezza metafisica, un’energia incontenibile, talora perfino destabilizzante. Ritratte nei panni di pittrici, o più spesso autoritratte, esaltano la conquista di un ruolo, fra emancipazione sociale e riscatto personale. Dipinte nelle loro attività quotidiane o in un attimo di intimo raccoglimento possiedono un’aura di curatrici, sensitive, maghe, benefattrici. In altre occasioni sono giustiziere e guerriere, incarnazioni mitologiche di un desiderio di rivalsa. 

Se il cammino dell’autorealizzazione femminile è in ogni ambito irto di ostacoli e battute d’arresto – quando non di imbarazzanti regressi – è pur vero che fin dall’antichità vi sono state zone franche, dove la donna ha trovato non solo mezzi per eludere la sorveglianza ma anche soprendenti vie aperte all’azione. Il fascino di questa storia risiede per l’appunto in tale moto oscillatorio nel quale si determinano ribaltamenti impensabili, uno scorrimento della sorte cui di rado si assiste ad altre latitudini dell’umano.     

L’universo femminile pare destinato a rimanere sospeso fra orgoglio e pregiudizio, ma può accendersi all’improvviso, ammantandosi di un che di leggendario. Un potere coinvolgente ma anche perturbante all’estremo, in grado di sconvolgere qualsiasi pronostico.   

La mostra “Roma pittrice” nella sede di Palazzo Braschi in Trastevere, visitabile fino al 23 marzo 2025, permette di approfondire l’avventurosa vicenda delle donne intente ad affermare la propria creatività intercettando le prestigiose committenze romane fra il XVI e il XIX secolo. Una rassegna approfondita alla riscoperta di personalità dimenticate se non sconosciute, che si dipana come un ricco itinerario nei luoghi salienti della cultura capitolina, con un’attenta mappatura della collocazione degli atelier. Gli studi delle artiste risultano per lo più concentrati al Pincio né sono rari i casi di ospitalità concessa da ecclesiastici, come per i locali messi a disposizione in San Lorenzo in Lucina. Una geografia fisica e sentimentale sulle orme di 56 artiste che hanno contribuito alla costruzione del sistema della arti nella Roma moderna.

Un altro santuario vibrante di presenze femminili è il Museo dell’Ottocento di Pescara. Come già nel corso della mia visita all’omonimo museo bolognese o alla Ricci Oddi di Piacenza, anche in queste stanze dov’è depositata la sensibilità del XIX secolo si respira una dimensione intimista al riparo dall’alienazione che ci attanaglia. Nelle quindici sale s’incontrano i resti di un mondo perduto che tuttavia è ancora in grado di entrare in risonanza con l’osservatore più attento, se entra qui col cuore sincero.   

Vesti, stoffe, ornamenti, amuleti, libri tutto diviene “symbolon” (σύμβολον) nel senso letterale greco di “segno di riconoscimento”, qualcosa che una volta accostato alla sua metà consentiva a due persone di ritrovarsi, di sperimentare un mutuo legame di appartenenza attraverso la riunione o ri-costruzione di un oggetto o di un’immagine. E nel presentarsi di queste donne sembra affiorare un codice cromatico o un comune atteggiamento teso a travalicare l’appartenenza sociale, a infrangere schemi, a spiazzare.  

Orecchini e collane di bella foggia accarezzano il candore dei corpi, graziosi corsetti amaranto stringono fianchi e seni ben proporzionati, nastri e trine adornano le capigliature di fiere signore sedute davanti a un cavalletto in belle e luminose stanze, in cui sono sistemati gli strumenti del mestiere, paesaggi e suggestivi scorci fanno da quinte emotive alla vitalità della figura ritratta, spesso coperta di uno scialle contadino, rimando a una pastorale biblica.

Ognuna di queste presenze reca una forma d’immortalità che fu nel suo passaggio terreno, setacciato dal linguaggio dell’arte, per sempre cucito alla vena creativa che l’ha rappresentata ai posteri. 

*In copertina: Domenico Morelli, Cosarella, Museo dell’Ottocento di Pescara

Fotografie di Claudia Ciardi ©

Mosè Bianchi_La lettura in Chiesa_Museo dell’Ottocento di Pescara
Domenico Morelli_Oro di Napoli_Museo dell’Ottocento di Pescara
Domenico Morelli_Donna tra le rocce_Museo dell’Ottocento_Pescara

Dalla mostra di Palazzo Braschi a Roma:

1. Claudia Del Bufalo_Ritratto di Faustina Del Bufalo_dettaglio; 2. Irene Parenti Duclos_Autoritratto_dettaglio

1. Laurent Pécheux_Ritratto della Marchesa Sparapani Gentili; 2. Lavinia Fontana_Ritratto di una giovane aristocratica_olio su lapislazzuli

Una parola che lenisce

Il Gran Sasso a novembre

Le esperienze di queste settimane mi hanno permesso di riflettere su molti aspetti della mia creatività e anche sulla natura di certi incontri. Spesso quando siamo immersi nel fluire degli eventi, concentrati sul nostro agire, diviene difficile avere uno sguardo d’insieme e far caso a quei dettagli che invece sono estremamente significativi e rivelatori del cammino intrapreso. Se considero i più recenti capitoli della mia vita ne traggo una sequenza sbalorditiva di richiami ad elementi nodali, che se anche in talune fasi sono sembrati meno segnanti, pure hanno continuato a riproporsi. Una linfa che va ben oltre la sostanza organica e che si fa nutrimento per l’immaginazione. In ciò si inserisce per l’appunto l’emotività peculiare sprigionata da alcune situazioni, quelle che oggi nelle lezioni sull’intelligenza emotiva si è soliti definire “il picco”, una metafora che mi piace perché mi riconduce alla montagna. Nel mio picco si colloca senz’altro il ritorno in Abruzzo dove ho portato, ma più correttamente dovrei dire riportato, la Profanazione, una scrittura che proprio in questi luoghi era cominciata.  

Nell’incontro abruzzese, come per tutti gli altri che lo hanno preceduto, si è dato un grande rilievo all’idea di cura, al valore terapeutico della creatività, al potere di lenire insito nelle parole. Pronunciare qualcosa corrisponde a un incantesimo, per questo è importante fare attenzione a quel che diciamo, a come lo diciamo. Le parole sono creatrici di realtà, possono ferire ma hanno anche una enorme facoltà di sanare. Una proprietà guaritrice profonda che nei nostri ritrovi abbiamo sempre provato a evocare in un rituale collettivo che è liberatorio e al contempo funzionale a far schiudere i semi dell’autorealizzazione. Come ha ben sottolineato il pittore pescarese Vittorio Di Boscio l’artista è chiamato a occuparsi degli altri, a dare sollievo laddove gli è consentito, non può sottrarsi a questa sua natura. Qualcuno ha anche detto che la scrittura congela l’età, perché chi scrive vive in una dimensione onirica capace di fermare il tempo. Fa bene alla mente, giova al corpo.

Alla luce di tali considerazioni, ancora una volta ho avuto modo di soffermarmi sulla mia storia familiare, dove seppure in assenza di legami diretti ovverosia di parentele ufficiali, i Ciardi risultano prevalentemente o medici o artisti. Il che mi convince sempre di più, per una prova data anche dal cosiddetto legame di sangue, che è innegabile il nesso fra cura dell’organismo umano e propensione creativa. 

Di seguito, il discorso da me tenuto al Teatro Cordova di Pescara con cui ho presentato al pubblico il mio manoscritto inedito, Profanazione, raccolta di prose liriche dipanate fra mitologia e autobiografia:

«Sono molto felice di essere qui e onorata di poter presentare la Profanazione proprio a Pescara, città a cui mi sento molto legata da ricordi che appartengono al mio periodo universitario. Circostanze fortuite e particolari mi hanno portata qui allora e mi emoziona davvero rinnovare oggi, insieme a voi, l’intensità di quei momenti che furono di una me poco più che ventenne in cammino per le strade di questa città. Episodi, emozioni, destini incrociati che hanno disegnato il sentiero delle parole affidate a queste pagine e che offrono adesso uno dei loro frutti. La Profanazione è il risultato di un’elaborazione, una gestazione direi, alquanto lunga. Sono qui condensate almeno un decennio di esperienze autobiografiche fissate in parallelo a un esercizio sulla lingua plasmata secondo le cadenze e le peculiarità espressive della prosa lirica.

In questa galleria talora vorticosa di immagini ed evocazioni ho creato una sorta di purgatorio, un luogo che non si colloca in nessun al di là ma ben saldato alla quotidiana mutevolezza dell’al di qua. Uno spazio penitenziale terreno, fisico, che si fa attraversare e sentire, un viaggio al termine della notte in cui questa mirifica montagna scalata da anime mortali diviene il centro di riflessioni, sogni, utopie raccolte nel bel mezzo delle umane tempeste.

La narrazione incarna anche elementi di teoria e storia della lingua desunti dagli usi dialettali, ricorrendo alla citazione di parole o formule estratte da una confidenzialità familiare e territoriale. Dunque viaggio interiore, epica paesana, Odissea senza eroi apparenti. Scrittura che irrompe nei generi letterari e li mette a soqquadro, corpo traslucido che non vuole nascondere la sua nudità. Materia organica la cui metamorfosi innesca il mutarsi inquieto della parola con il suo carico di incantesimi e disvelamenti. È un’opera che si fa spazio scenico e che rovescia se stessa fino a lambire le rive del metateatro. Un corpo in grado di guardarsi da fuori, di auto narrarsi, che volutamente gioca a coprire e scoprire le sue articolazioni. I cenni alla questione della lingua divengono strutture anatomiche, parti vitali, che si fondono con le immagini, i simboli, le voci che scandiscono il testo. Ne esce una rappresentazione sfuggente eppure allo stesso tempo compiuta in ogni suo gesto, un rito più volte suscitato in un culto profanato, ma proprio per questo sorprendentemente rivelatore».

Teatro Cordova, per il Premio Giacomucci e Santini, Pescara, 16 novembre 2024

*L’Appennino abruzzese in autunno, nei giorni della prima neve, e la notte a Pescara davanti all’Adriatico.
Fotografie di Claudia Ciardi ©

I luminosi atlanti

Mese di brillamenti solari, aurore boreali e comete. Ogni giorno di questo ottobre ci ha schiuso una mappa per navigare i cieli nell’alto e nell’interiore, ci ha fatto sentire legati a doppio filo con i ritmi dello spazio profondo, ci ha ricordato che siamo dei microcosmi infiniti e unisoni, ha fatto esplodere microcariche di energia e creato attrazioni e incontri che forse si preparavano da tempo.
Nel prendere congedo da questa intensa celebrazione di mondi, si vuole riservare uno sguardo alle pubblicazioni dedicate all’universo, dalla cartografia antica alle opere divulgative tenute a battesimo dall’enciclopedismo settecentesco. In epoca moderna, anche in seguito all’invenzione della fotografia, ci volle tempo per mettere a punto tecniche e strumenti idonei agli scatti in notturna, in grado di restituire immagini piuttosto fedeli dei corpi celesti. Non è raro pertanto all’interno di poderosi tomi che si proponevano come una summa delle conoscenze scientifiche acquisite nella temperie del cosiddetto nascente progresso rinvenire tavole illustrate di straordinario pregio estetico, frutto di un’accurata osservazione dei cieli e dell’estro creativo dei loro ritrattisti. Al pari degli atlanti geografici terrestri, anche la cartografia astronomica è imago mundi, ossia riflette l’idea dell’uomo, il suo sguardo gettato sulle profondità siderali.  Se si pensa che le prime cosmogonie si accompagnano all’invenzione della scrittura, dunque a partire dal IV millennio a. C., si tratta di un immaginario lunghissimo, davvero prolifico e sfaccettato. 

Le costellazioni dell’emisfero Sud rappresentate come animali fantastici e personaggi mitologici in una mappa del cielo disegnata in Inghilterra nel 1700

Nel corso del Settecento, tra fermenti illuministi e rivoluzionari, si alzavano gli occhi al cielo con ancor più fervore, scorgendovi forse una smisurata metafora di libertà. La propensione didascalica continua tuttavia ad essere infiltrata da credenze di matrice medievale, riconducibile alla compilazione dei bestiari. Ancora all’inizio del XVIII secolo è infatti evidente come miti, leggende e creature fantastiche occupino un posto d’onore nella cosmologia.

Planisphaerium Coeleste di Matthäus Seutter, incisione del 1730

Un esempio particolarmente raffinato è il Planisphaerium Coeleste di Matthäus Seutter, un’incisione del 1730 inserita nel suo Atlas novus. Il foglio, inchiostrato a colori molto vividi, è una rappresentazione delle costellazioni simboleggiate secondo le loro tipiche figure e suddivise nei cieli dell’emisfero nord e sud. Una fascia chiara indica la Via Lattea. A contorno, sette cerchi, numero della tradizione mistica, in cui sono contenuti aspetti sia astronomici che religiosi. Uno sguardo d’insieme e trasversale su epoche e saperi.

Nel 1877 il giornalista francese Amédéé Guillemin diede alle stampe il libro Il mondo delle comete, subito disponibile in lingua inglese, apparso sugli scaffali delle librerie britanniche in uno dei periodi di massimo interesse per lo spazio. In queste pagine le opere grafiche e la narrazione scientifica intrecciano un dialogo affascinante, tanto da aver costituito un vero e proprio caso editoriale. Il volume offre una disamina dettagliata delle comete apparse nella storia, con un excursus di fonti e testimonianze relative alle diverse apparizioni, non disdegnando un’interpretazione antropologica dei fenomeni, sulle tracce di credenze, superstizioni, presunti prodigi. L’accostamento di tali riflessioni con disegni, incisioni, dipinti dà vita a un catalogo d’arte in cui ci si addentra come in una galleria.

Flammarion Camille, altro divulgatore scientifico, astronomo ed editore piuttosto noto ai suoi tempi, pubblicò Le stelle e le curiosità del cielo, tradotto e diffuso in Italia da Sonzogno nel 1904; una descrizione completa del cielo visibile ad occhio nudo e di tutti i corpi celesti facilmente osservabili. Da segnalare le ben curate spettrografie delle diverse stelle, nastri luminosi che si offrono come arcobaleni stilizzati. Si ricordi inoltre la sua preziosa Astronomia per signore, datata 1903, che ripercorre l’avventura poco nota delle pioniere delle stelle.

Spettri delle varie sorgenti luminose, solare e stellare

Fra gli autori contemporanei, in scia agli antichi trattatisti dediti al genere dei catasterismi, desidero menzionare Giulio Guidorizzi, illustre grecista negli atenei di Torino e Milano, studioso di mitologia e antropologia del mondo antico, autore di I miti delle stelle. Un vademecum per navigare i cieli seguendo le rotte delle “favole antiche” come già Leopardi le aveva cantate nei suoi cieli poetici.
 

*Illustrazioni tratte da “The World of Comets”

Libri et mirabilia

Luce viola a sviluppo regolare (sera) –
Oceano Atlantico meridionale, 2 dicembre 1884

Ottobre è iniziato con il più potente brillamento solare degli ultimi sette anni. Il flusso di raggi X rilasciato dall’evento – a quanto si dice il maggiore dell’intero ciclo solare – è molto più intenso di quello di metà maggio. Per trovare una tempesta più forte bisogna risalire ai primi di settembre del 2017, quando si verificò un flare di classe X 9.3 a fine ciclo. Il nuovo evento ha prodotto una nuova significativa emissione di massa coronale: gli effetti del flare solare sono stati avvertiti sulla terra dalle prime ore di venerdì 4 ottobre (a conferma delle proiezioni dei modelli statunitensi), mentre le particelle solari emesse durante la seconda eruzione hanno iniziato a interagire con l’atmosfera terrestre dalla serata di sabato 5 ottobre.

In condizioni favorevoli (componente magnetica Bz fortemente negativa e densità e velocità del vento solare elevate) si verificano le aurore boreali, puntualmente arrivate. Al di là delle spiegazioni tecniche siamo di fronte a un organismo cosmico, con le sue vibrazioni e i suoi maestosi sussulti. Per più che probabilistiche assonanze fisiologiche, gli eventi e gli incontri avvenuti mentre una simile energia ha bussato alle nostre porte saranno destinati ad avere una grande importanza nelle nostre vite.

Gli antichi, pur in assenza di strumenti sofisticati per la misurazione, erano osservatori profondi e riservavano un’attenzione speciale a questi fenomeni, anche attraverso i rituali della vita pubblica. Astronomia e astrologia erano non a caso due discipline contigue, di cui la seconda affatto associata ad aspetti di superstizione ma vera e propria scienza della sincronicità, dei moti paralleli, degli unisoni corporei e sentimentali, delle corrispondenze fra alto e basso, fra cielo e terra. Ciò che noi abbiamo categorizzato e separato, nel mondo antico – nel periodo arcaico in particolare – godeva di legami ben saldi e si travasava in unioni fisiche e metafisiche di straordinaria vitalità. L’idea stessa di prodigio era il frutto di tali risonanze, perciò meno astratta di quanto possa apparire al nostro rarefatto pragmatismo.

Dalle esplosioni solari e le tempeste geomagnetiche alle eruzioni, dallo spazio profondo alle nostre latitudini il passo è molto più breve di quanto si voglia pensare. Lo studio dei corpi celesti e dei fenomeni atmosferici e la volontà di documentarli del resto è parte delle curiosità umane di lungo corso. Un interesse che talora ha preso forma in volumi affascinanti dove la descrizione scientifica si è felicemente incontrata con l’arte figurativa.

Il 27 agosto 1883, su una piccola isola dell’Indonesia, si verificò l’eruzione del vulcano Krakatoa, culmine violento di uno degli eventi vulcanici più letali e distruttivi della storia, la cui esplosione fu udita fino a 3000 miglia di distanza. Oltre alla terribile devastazione (36.000 morti sono stati attribuiti all’eruzione), sono stati segnalati strani effetti ottici in tutto il mondo, conseguenza dell’enorme pennacchio di cenere e detriti espulso nell’alta atmosfera.

Stando a diverse testimonianze, per alcuni anni successivi all’eruzione, i cieli all’inizio e alla fine della giornata, quando il sole era più basso nel cielo, sono stati particolarmente colpiti, brillando di strani colori per anni dopo l’eruzione e affascinando e incuriosendo scienziati, scrittori e artisti. I tentativi di documentare e spiegare il fenomeno hanno spesso assunto la forma di uno sforzo interdisciplinare, in cui arte e scienza hanno lavorato in tandem. Un esempio è un libro tedesco pubblicato nel 1888 – Untersuchungen über Dämmerungserscheinungen: zur Erklärung der nach dem Krakatau-Ausbruch beobachteten atmosphärisch-optischen Störung, che si traduce approssimativamente come “Studi sui fenomeni crepuscolari: per spiegare il disturbo atmosferico-ottico osservato dopo l’eruzione di Krakatoa”. Mentre la maggior parte del libro è un’esplorazione attraverso il testo del fisico tedesco Johann Kiessling, le ultime pagine sono dedicate a una meravigliosa serie di cromolitografie da immagini acquerellate di Eduard Pechuël.

Pechuël-Loesche fu un naturalista tedesco, collezionista di piante e pittore di acquerelli che viaggiò molto, anche in Africa occidentale dove accompagnò Paul Güssfeldt nella spedizione di Loango del 1873-’76 e svolse un ruolo nella fondazione dello Stato del Congo. Sebbene la maggior parte delle immagini di Pechuël-Loesche nel libro citato risalgano agli anni successivi all’eruzione del Krakatoa, tre provengono in realtà dalla “Costa di Loango” (nell’odierna Repubblica del Congo), durante l’omonima spedizione.

Il testo di Johann Kiessling si è rivelato fondamentale per la comprensione di questi strani cieli post-eruzione, spiegando l’enigmatico fenomeno in termini di diffrazione della luce solare da parte delle particelle della nube di cenere. Cercando di replicare l’effetto attraverso la sperimentazione in laboratorio, Kiessling progettò e costruì una “camera a nebbia”. Un’invenzione che, insieme al successo dei suoi esperimenti, si rivelò fondamentale per lo sviluppo della camera a nubi di Charles Thomas Rees Wilson, utilizzata in fisica delle particelle per rilevare i percorsi delle particelle radioattive.

Vediamo dunque come un fenomeno naturale abbia determinato l’incontro di due belle menti, innescando e orientando a sua volta altre ricerche di sorprendente portata. Se questa non è una ritmica meravigliosa, se non è questa la poesia del mondo…

Nuvola d’irraggiamento con luce rossa durante il periodo di perturbazione (mezzogiorno) – Jena, 24 aprile 1884
Nubi d’ombra dopo il periodo di perturbazione (mezzogiorno) – Jena, 10 settembre 1887
Ombra terrestre e crepuscolo [cintura di Venere] con i raggi crepuscolari che convergono dopo il contrappunto del sole, estate 1884

Per approfondire si veda l’articolo Studies on Twilight Phenomena, after Krakatoa (1888) pubblicato su “The Public Domain Review

Artigianato e arte del libro

Libri con legature in pelle e tagli artistici marmorizzati realizzati nel 1850

Il libro è un oggetto mutevole, che nel tempo si è adattato alle esigenze di committenti colti e appassionati come di un pubblico man mano più ampio, dall’invenzione della stampa in poi. Ha quindi adattato il suo aspetto ai diversi contesti sociali in cui si è trovato a circolare. Con il passare dei secoli è cresciuta la consapevolezza circa la sua capacità comunicativa, legata non solo ai contenuti ma ancor più per il suo aspetto, il formato, la carta, i tagli, trattandosi di un livello più immediato, più riconoscibile e che precede la lettura; qualcosa in grado di orientare la scelta del libro stesso. Nel corso dell’Ottocento le copertine divennero sempre più vere e proprie tabulae illustrate su cui fissare un’idea artistica, dalla scelta del colore ai caratteri decorativi fino alla grafica del titolo. Abbiamo già avuto modo di accennarvi in una precedente ricognizione sul cosiddetto libro dipinto.

Altrettanto vasto e affascinante è il regno dei formati che dal Medioevo in poi assecondano la richiesta di una committenza assai eterogenea, religiosa o laica, tentando di rispecchiarne le rispettive necessità pratiche. Il taglio miniaturizzato, la copertina scelta in modo da resistere alla lunghezza dei viaggi nel caso di aristocratici e mercanti o al ripetersi delle funzioni ecclesiastiche e ai frequenti spostamenti nei villaggi per l’opera di catechizzazione. Oppure alcuni assemblaggi con materiali di fortuna per risparmiare sui costi e dunque sui materiali; è il caso di alcuni “libri” scolastici per bambini, più simili alle tavolette d’esercizio usate già nel mondo antico.

Non è un’attitudine sporadica infine che librai e maestri rilegatori abbiano da sempre raccolto sfide personali a dimostrazione della loro perizia. Il produrre esemplari bizzarri e “difficili” era una sorta di biglietto da visita. Una tradizione longeva che si può ancora riscontrare in alcuni decani del mestiere. Ricordo un abilissimo artigiano libraio a Fossano che sfoggiava con orgoglio i suoi esemplari miniaturizzati, sostenendo che erano il frutto di una “tenzone” ingaggiata con un collega. È questa un’altra tradizione ben radicata nel mondo della legatoria, specie di appartenenza anglosassone, dove a quanto pare questi esercizi di pazienza ed eccentricità si sono conservati in maggior numero. È il caso di una serie di minutissimi libretti, grandi come la falange di un dito, creati nel corso dell’Ottocento, che ci è già capitato di indicare come secolo di follies editoriali, indirizzate a vari argomenti, con una preferenza per calendari, proverbi, previsioni astrologiche e almanacchi. Forse queste materie meglio si prestavano a sintesi estreme che quindi potevano ben adattarsi a formati davvero minuscoli. Come pure si può ipotizzare che tali coriandoli più che tascabili fossero pensati alla stregua di amuleti. Dunque al di là di oggetti a stampa fruibili in sé ma per quello che erano in grado di evocare. Ciò sembra peraltro alla base dell’attrattività che ancora esercitano in chi li contempla. Nesso tutto da esplorare. Una collezione di mini-libri simili a quelli appena descritti risulta censita e catalogata dall’università dello Iowa.

Chiudo menzionando la raccolta online apprestata dal professor Erik Kwakkel, medievista a Vancouver che, nell’humus poco considerato di tumblr, ha aperto una galleria virtuale di esemplari rari e notevoli, vere e proprie opere d’arte in forma di libri esemplificative di diverse civiltà e parti del mondo.  

The Ethiopian goat skin Bible

Almanacco con segnalibro in seta

Libro d’ore in miniatura proveniente da un’Abbazia benedettina in Austria

* Alcune immagini di queste rarità e la loro descrizione provengono dalla pagina fb “Osservatorio libri. Quotazioni”.

Hornbook_Children’s book

Altre curiosità sul sito “Ebook frendly”:
18 most creative books from the past and present

Simboli, sogni e sincronie nell’opera di Marius Pictor

Nel centenario della morte del pittore Mario de Maria, in arte Marius Pictor (1852-1924), Bologna ha voluto rendergli omaggio con una preziosa retrospettiva al Museo dell’Ottocento. Nome fra i più rilevanti del simbolismo italiano, la sua vita si dipana in diversi luoghi chiave della penisola da Roma a Venezia – fu uno dei fondatori della Biennale d’arte – circondato da altrettanti personaggi noti e influenti dell’epoca come Vittore Grubicy de Dragon e Gabriele D’Annunzio. Il titolo della mostra “Ombra cara” è tratto non a caso da un omonimo quadro di Grubicy, che non fu solo un sensibile coltivatore di talenti ma anche valente pittore in proprio. La rassegna fa luce su tali rapporti, nel tentativo di restituire un quadro vivido delle raffinate sensibilità che si sono incontrate alla svolta di due secoli. Un intreccio fiabesco tra poesia e rappresentazione alla ricerca di accordi in cui il paesaggio è specchio dell’anima. Commovente la lettera inviata da de Maria a Vittore in occasione della morte improvvisa della madre come anche l’epistola indirizzata agli Uffizi da Emilia Elena Voigt, coniuge del pittore, per suggellare la donazione dell’autoritratto del marito; l’opera è tra quelle esposte a Bologna. Una storia che dall’Italia si estende alla Germania, per la precisione a Brema e alla cerchia bremese di intellettuali e artisti. Si ipotizza infatti una conoscenza dei Worpswediani da parte di de Maria, se non personale, almeno sicuramente della loro produzione pittorica. Di fatto ha frequentato in diverse occasioni la città anseatica, come attestano i quadri con vedute di campagna realizzati all’inizio del Novecento ed esposti in mostra. Queste opere denotano una lettura non superficiale né affrettata dei luoghi, ben lontana da velleità manieriste, e nella tecnica non mancano i richiami alle avanguardie d’oltralpe, passando per quella variegata e misconosciuta galassia dei trentini che si abbeveravano in misura diversa alle secessioni tedesche.

Architetture soffuse e notturne come riflessi di immagini mentali, vibrazioni fiabesche che stabiliscono connessioni in zone d’ombra dell’umano, trapassi rapidi di sguardi e ammiccamenti mitologici, intuizioni, luminescenze. Da sotto un pergolato può spuntare il volto di un fauno, una vecchia casa-torre immersa nel buio sprigiona un fulgore metafisico, un plenilunio suscita un incantesimo corale. Si sperimenta un continuo oscillare tra reale e irreale, laddove il pittore si adopra a comporre un fraseggio visivo, assolutamente originale e inedito, del travaso fra le due dimensioni. Tutto ciò fa pensare a una narrazione pittorica della sincronicità junghiana, che attribuisce alla mente, al suo potere immaginativo la capacità di dare concretezza a quanto esiste nel pensiero. Il convergere di queste energie nell’esistenza di qualcuno, nel posto giusto al momento giusto, può creare straordinarie risonanze tanto da stabilire connessioni significative fra individuo e mondo. Quello che appare come un processo istantaneo, se non improvvisato, è in realtà il frutto di una continua ricerca e disposizione ricettiva nei confronti di tutto ciò che ruota intorno a noi. Mario de Maria è un artista che raccoglie queste cadenze, che ne elabora le percezioni tattili, trasferendole sulle sue tele, cosicché l’esercizio del guardare sfugge continuamente alla mera dimensione fisica.

Antiche architetture, 1890 circa

* La mostra è visitabile ancora fino al 9 settembre nei locali del Museo dell’Ottocento in Piazza San Michele a Bologna.

* Fotografie di Claudia Ciardi ©

Morituri vos salutant, 1887-1888
Una terrazza a Capri, 1884-1909
Viale alberato a Brema, 1912

Di nuvole, Sibille e ombre sacre

Michele Pellegrino_Nuvole e montagne
Dal catalogo “Io il covid e le nuvole”_Electa Photo_2023


Poeta di nuvole e montagne, a novant’anni il fotografo Michele Pellegrino offre i suoi cieli al grande pubblico raccogliendoli in un emozionante catalogo e ricevendo un’attesa e decisiva consacrazione internazionale con la sua personale ospitata da Camera di Torino a febbraio di quest’anno. Lode alla transitorietà, al fluire di tutte le cose nella corrente del tempo ciclico della natura. Un aruspice del contemporaneo che osserva e afferra l’immediatezza, l’attimo in cui si leva il vento e l’aria vibra per un cambio di luce. Del resto, cosa c’è di più rapido e mutevole di una nuvola? Eppure la fotografia è immanenza, crea una curvatura dello spazio-tempo, proietta un incantesimo paradossale su una cosa finita, proprio perché rappresentata (o nonostante ciò), inducendola a una perpetua traslazione del presente. Se l’aoristo è in greco il tempo indefinito per eccellenza, l’espressione della compiutezza di un atto senza che sia collocato con precisione in un quando o un dove, questa galleria di Pellegrino parla secondo le forme antiche, si coniuga come accadimento puro, apoteosi dell’essere in sé, svincolato, staccato dalla linearità consecutiva, dal costrutto seriale. Un paradigma intraducibile anche dopo essersi fissato in uno scatto.   

Si direbbe il volto sibillino delle nuvole questo essere illimitato, mai identico a se stesso, che si trascende di continuo fra realtà e ineffabile. La Sibilla, dea non dea, di una sensibilità più che umana, estrema, che rasenta il disordine emotivo, è una creatura centrale e al contempo marginale della religione antica. Le sue facoltà divinatorie si perdono «ne le foglie levi», ha un’indole sfuggente, ombrosa e non a caso predilige l’ombra per raccogliersi e ascoltare la voce che la ispira. Le foto dei cieli in montagna di Pellegrino rimandano ai presagi umbratili e assorti degli oracoli antichi. La sua è in qualche modo una storia d’incontri fortuiti, di apparizioni, immaginazioni, conversioni in senso pagano, cristiano e letterariamente personale. La ricerca del proprio respiro nel respiro della terra attraverso la creazione d’immagini, la riscrittura di una genesi di cui l’uomo sembra aver smarrito il senso. Un’epica vegetale e montanina, di erba, acqua e greti solitari e cime screziate come vascelli fantasma, la cui sparuta umanità si limita a quella agreste, china nei campi o intenta ai lavori artigiani di borgata o nei chiostri monasteriali. Ma nell’ultimo volume dei cieli mancano anche questi pochi. Si lavora per sottrazione, l’umano è assente e tuttavia presente, evocato nei controluce del paesaggio, nella ruota dei giorni al cui movimento assiste e che inesorabilmente lo trascina con sé. Un poema dal valore iniziatico, una rappresentazione taoista del fluire di tutti gli elementi nell’unicità irripetibile dei luoghi e delle testimonianze che li abitano. Di questa pittura-scrittura attraverso la luce ci parlano con accenti altrettanto evocativi Daniele Regis e Walter Guadagnini. Arte, poesia, musicalità della creazione; un’opera multifocale e multisensoriale.

Nella sua approfondita prefazione che alterna i toni del resoconto biografico all’analisi tecnica, un sapiente e scorrevole saggio senza inflessione manualistica, in virtù anche dei molti intarsi in cui si ascolta la voce diretta del fotografo, così interviene Regis: «Le montagne, la natura, l’epica della natura nelle immagini incarnate, sembrano dunque l’ultimo orizzonte di Pellegrino che annuncia quello problematico della storia del mondo: “Il rapporto dell’uomo con la natura nelle sue varie forme non è semplicemente un’enunciazione dell’uomo su di sé […] bensì della natura su di sé”. Forse, in questa chiave il progetto dell’uomo che ritorna in una natura delle origini, nei nudi, si inscrive nello svelarsi, nelle immagini della natura, di un nuovo uomo, in un antico mondo che abbiamo perduto. Questo aspetto della visione naturale wordswortiana, che era anche di Constable come in Ruskin, in Pellegrino non sempre emerge nella critica; prevale a volte il tono del realismo, diretto, asciutto, autentico, puro, senza trucchi e a volte aspro […]». Daniele Regis può dirsi uno degli interpreti più acuti e preparati di questi cicli fotografici, per designazione dello stesso Pellegrino, nonché fra i maggiori esponenti della scuola piemontese. Gli stili contigui, i sincretismi, la vicinanza di sensibilità, la condivisione degli ambienti frequentati hanno creato una longeva intesa di linguaggi fra il ricercatore, architetto paesaggista, e il maestro, portando a una proficua collaborazione a prova di anni.

Accanto ai padri spirituali, si trovano dunque i padri putativi della fotografia e poi vi è il cenacolo degli amici-colleghi di una vita, i propri paesani, gli stampatori, chi ha scambiato generosamente contatti, inviti, esperienze.

Siamo senz’altro in presenza di un volume cardinale nel percorso fotografico di un grande autore piemontese, un tomo altamente consigliato a chi desidera comprendere la bellezza specifica di un territorio, il Piemonte, che diviene anche una landa metafisica, allegoria di conservazione che sollecita la tutela, che sprigiona una poetica in difesa della fragilità. È stato un onore visitare la mostra torinese alla sua inaugurazione, lo è ancora di più vedere citati qui i miei lavori sul mito, con particolare riferimento alle figure delle Erinni-Eumenidi e delle Sibille, nell’ambito di una riflessione sul “sacro femminile”. Trascorsi alcuni mesi da quell’evento, rinnovo il mio invito a cercare i cataloghi di Michele Pellegrino e a seguire le rassegne dedicate alla sua opera.

Catalogo di Michele Pellegrino, Io il covid e le nuvole, prefazioni di Daniele Regis e Walter Guadagnini,
Electa Photo_Mondadori_2023
Dall’interno del catalogo

Khalil Gibran, autore molto amato da Michele Pellegrino e fonte d’ispirazione per numerose sue fotografie

Leggere l’arte

Il libro in qualità di oggetto d’uso o riprodotto in rappresentazioni di pittura e scultura si candida a incarnare nel corso della storia una doppia valenza come strumento sapienziale e simbolo di questa caratteristica speculativa. La sua comparsa sulla scena dell’arte, spesso affiancato al ritratto di un lettore più o meno illustre, celebra l’emancipazione culturale e sociale, avvenuta nel tempo, di un numero sempre più vasto di categorie umane alla ricerca della propria identità pubblica e privata. Una conquista lenta e inesorabile che si accompagna all’invenzione della stampa e, dunque, alla graduale consapevolezza dei cambiamenti prodotti da una circolazione più veloce e ampia della cultura.

Espressione verbale, segno grafico, creazione pittorica vengono così a stipulare una longeva alleanza che si nutre della medesima facoltà immaginativa. Parola e disegno sono infatti due costellazioni complementari, che si possono pensare nello stesso cielo, che servono volentieri un comune intento divinante e, dunque, una natura similmente ispirata.

A dispetto di cori lamentosi annunciati da vessilli di resa – voci di un passato recente e già oltremodo vetusto – noi guardiamo alla vera antichità, autentica fonte di cultura. Diverse concomitanze ci stanno riconsegnando le tracce di una storia potente. I Fori imperiali rinnovano il loro splendore, anche attraverso il riposizionamento di trecentomila sanpietrini – pietra su pietra, passo su passo. Dopo mille e cinquecento anni si è riportata l’acqua alle Terme di Caracalla, elemento costitutivo e fondante di quelle architetture. A Piazza Pia riaffiorano il Portico e i giardini di Caligola.

Un’urbanità sepolta si scuote dal torpore e bussa alle soglie del nostro tempo, densa di messaggi, carica di attese. Ancor più sentiamo il bisogno di esserne custodi e interpreti. Raccogliere questi indizi trasmette forza alla nostra stessa idea di arte, di disegnatori e costruttori del contemporaneo. In ciò riprende vigore anche il convincimento che le idee non siano negoziabili. E quando sono veramente ispirate e sostenute dalla genuinità dei sentimenti diventano incontenibili.

Per questo rito di unione fra arte e scrittura il SetArt 2024 non poteva che tenersi a Roma.

Book nook

Letteralmente libro d’angolo, da cantuccio (nook), per la posizione che gli è riservata sulla mensola di una libreria o simile e per il suo essere angolato, scavato, un libro aperto in senso letterale (si legga pure incavato). Un volume decorativo, un oggetto d’arte ma non qualcosa di statico, non un semplice pezzo da esposizione. Nel novero dei libri d’artista si può forse considerare anche questo genere di opere, estremamente minuziose, alquanto difficili da comporre. Un libro “a rilievo” ben diverso dal libro animato con disegni ripiegati che si aprono sulle tre dimensioni, girando pagina. Qui si tratta di una vera e propria scena che occupa il taglio del libro, munita di congegni luminosi e piccoli dispositivi funzionali alla diffusione di suoni, articolata in pavimenti e travature, in stanze e voliere o altri ambienti d’invenzione.

Il libro diviene così uno scrigno all’incrocio fra arte, gioco e scoperta. Una forma di scrittura-architettura che combina spazio fisico e inventiva. Una rappresentazione plastica del meccanismo immaginifico legato alla lettura. Si riproducono infatti i grandi capolavori letterari, si raffigurano gli archetipi della mente, oppure vengono ideate eccentriche mescolanze fra questi ingredienti.

Ascrivibile alla categoria del diorama, διόραμα (πανόραμα), parola di origine greca, coniata da Louis Daguerre nel 1822, che alla lettera significa “guardare attraverso” e che rimanda alla prospettiva panoramica. In quanto padre del dagherrotipo, oltre che pittore e fisico, l’inventore di questo termine ci indica una precisa relazione con la fotografia. Rispetto a tale mezzo, così come per il disegno o un testo scritto, siamo tuttavia di fronte a un’esperienza che coinvolge più livelli. Strettamente legati all’ambito museale, in particolare per la storia naturale, il carattere coinvolgente dei diorami è una sorta di arte immersiva contemporanea. Fra i primi e più noti creatori italiani si ricorda Paolo Savi, geologo e ornitologo, che lavorò a diversi modelli per finalità didattiche e scientifiche. Le sue opere si possono ammirare al Museo di Storia Naturale e del Territorio di Calci, nei locali della stupenda Certosa monumentale, in provincia di Pisa.

Per inciso, si segnala che ad oggi le riproduzioni dioramiche rappresentano i soggetti più diversi, dando vita a scenografie estremamente realistiche e duttili.

Nel caso specifico del book nook siamo in presenza di una copia su scala, di una elaborata miniatura che intende evocare il fiabesco, chiamato a una fragile apparizione entro i limiti dimensionali di un tomo a stampa. Qualcuno li ha ribattezzati finestre aperte su altri mondi, a ribadire l’essenza della struttura concreta proiettata verso un’astrazione, un’idea di luogo nonluogo. Tale realizzazione è interamente affidata alla cura del costruttore-lettore, qui nei panni di giardiniere, progettista, narratore e, stando a chi se ne intende, non è una cosa tanto semplice in cui cimentarsi. Sapendo di affrontare un esercizio che contempla pazienza e delicatezza, vicino alle pratiche di modellismo, al confine fra tecnica e ritualità, l’impegno sarà la condizione necessaria al fiorire dell’arte.

Altri collegamenti:

Principali tipi di diorama

I diorami nei musei di storia naturale

Book Nook World // A Midsummer night’s dream

Book Nook – Figure d’Art

Esempio di kit per un Book nook

Umane e sacre allegorie

Chi si fa sterminatore dei sogni altrui, non è poi così impensabile che finisca con il distruggere i propri.

L’ambizione umana non è una cosa in sé deprecabile, purché il conseguimento dei propri obiettivi faccia parte di un processo equilibrato che armonizzi se stessi nella relazione con gli altri.

Raggiungere posizioni apicali avendo calpestato, per fini strategici, chi abbiamo avuto vicino è indicativo di una leadership debole. I progetti di potere e le idee di queste personalità saranno inevitabilmente soggetti a cadute. Attribuiscono i loro momentanei successi a innate virtù da paragnosti. In realtà non ne possiedono, e anche quella residua immaginazione che in loro sembrava pur sopravvivere e che per un po’ le ha anche condotte a risultati positivi, a un certo punto, vedendosi tradita, recede.

Vivendo di piccoli calcoli, invece di pensare in grande e in modo veramente inclusivo, si danno obiettivi minori pensando di essere arrivati in cima alla piramide.

Annunciano regni che non esistono e nel frattempo perdono il cuore.

L’Allegoria sacra è un dipinto olio su tavola (73×119 cm) di Giovanni Bellini, databile tra il 1490 e il 1500 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.


Those who become exterminators of others’ dreams are not so unthinkable that they end up destroying their own.

Human ambition is not a deplorable thing in itself, as long as the realization of one’s goals is part of a balanced process that harmonizes oneself in relationship with others.

Achieving top positions by having trampled, for strategic purposes, those we have been close to is indicative of weak leadership. The power projects and ideas of these personalities will inevitably be subject to downfall. They attribute their momentary successes to innate parognost virtues. In reality they possess none, and even that residual imagination which seemed to survive in them and which for a while even led them to positive outcomes, at some point, seeing itself betrayed, recedes.

Living by small calculations, instead of thinking big and in a truly inclusive way, they give themselves smaller goals thinking they have reached the top of the pyramid.

They announce kingdoms that do not exist and meanwhile lose heart.

* The Allegoria sacra is an oil on panel painting (73×119 cm) by Giovanni Bellini, dated between about 1490 and 1500 and preserved in the Uffizi Gallery in Florence.