La morte di Joseph Ratzinger chiude simbolicamente il 2022. E chiude ritualmente un ciclo. La mia prima scrittura di quest’anno è dedicata a lui che mi richiama alcuni ricordi romani, il mio incontro con la Germania – e il complesso straordinario (alla lettera fuori dall’ordinario) rapporto con la cultura tedesca che da allora ho sviluppato – oltre alla ricerca costante, tenace di un confronto da opporre alla superficialità, alla dispersione, al disorientamento che proprio in questi ultimi anni ci ha chiamato alla prova. Non riesco a stringere in parole il mio sentimento di queste ore, perché si tratta di corde talmente intime e profonde che perfino lo scrivere sembra inadeguato se non manchevole.
Per molti cultori del disvalore la personalità di Benedetto XVI è inconcepibile, incarnazione di un massimalismo fuori dal tempo, di un’ortodossia cogente. Io stessa, giovane universitaria, infatuata da false e sbrigative emancipazioni, ammetto di aver in un primo momento frainteso l’uomo, di averlo giudicato in modo affrettato. Vivendo ci si accorge però che l’emancipazione priva di contenuti non costa nulla a chi la promette, rivelandosi piuttosto un disperante schiavismo per chi la insegue senza trovarla. Mentre la lezione di fede, umanità, umiltà («un semplice, umile lavoratore nella vigna del Signore») difesa con perseveranza da questo papa avrebbe acquistato forza – specie dopo le sue cosiddette dimissioni – sgretolando pregiudizi, contrapponendosi ad altri imbonitori dell’attimo.
Fino all’ultimo si è voluto scagliare sulla sua persona un preconcetto, sobillando una conflittualità latente, volta a distogliere, mistificare, dividere in fazioni. E invece nel suo entourage ci sono stati uomini integri, più aperti al dialogo tra le fedi di altri loro successori, e animati da un credo limpido, vibrante, caparbio.
Il mio ricordo si aggira in questa patria sentimentale. Ripenso all’Abruzzo, io che nel terremoto dell’Aquila ho avuto la vita salva da un tedesco che fatalmente mi distolse dall’andare in città proprio in quei giorni. Per me questo legame, accompagnato alla scoperta di una spiritualità che fino ad allora avevo respinto, trascende ogni altra relazione, perfino quelle di sangue. È forse paragonabile a certe ataviche cerimonie; penso a vecchi riti mediterranei, alle storie del comparato magico. Da allora ho anche proiettato sui tedeschi una qualità sensitiva, che non riesco a spiegarmi del tutto né mai mi spiegherò, e che talora mi inquieta. Un carattere che ho continuato a sperimentare in circostanze diverse ma pur presenti nel mio cammino.
Mi si è chiesto se i miei libri non ne siano inconsciamente un riflesso. Può darsi, ma di certo il mio tempo terreno non basterebbe a esaurire questo patto. È un debito per la vita che va oltre la vita stessa; qualcosa di inattingibile, che è destinato a restare, qualcosa che fa parte di un prima e che farà parte di un dopo, di là da me.
Di Joseph Ratzinger si disse che era fin troppo distaccato, timido, freddo per affrontare il dolore dei terremotati. Invece, andò in Abruzzo, si strinse a tutti, accarezzò e si lasciò accarezzare. E sono immagini bellissime, di spontaneità, vicinanza, conforto. L’umanità è forse alle soglie di un disvelamento. Il conflitto perciò più esasperato, sembra inasprirsi, macinare ancor più aspettative. Ma ciò è anche indicativo di una fine. La fine come nuovo inizio. La morte di un papa che non è scomparsa ma qualcosa che resta, offrendo la sua sostanza spirituale perché più certa, salda, benedetta sia la vittoria di chi sinceramente ama.
L’indispensabile difesa della spiritualità
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