Automazione, informatizzazione e passaggio al digitale – della pubblica amministrazione, dei patrimoni culturali e di moltissimi settori in contatto diretto o ravvicinato con la nostra quotidianità – stanno determinando mutamenti estesi e profondi nei modi di relazionarci, di intendere il lavoro, scisso fra alcune possibilità aperte dalle nuove tecnologie e la perdita di occupazione, e dunque una non aggirabile condizione di incertezza, precarietà economica e conseguente disagio.
Quando il direttore del Museo egizio di Torino ha di recente prospettato la realtà di un museo gratuito, in molti si sono detti contrari e contrariati. Ma l’atteggiamento di chi sembrava abbracciare chissà quali rivoluzioni in questo stesso settore, per poi mostrarsi fra i più reazionari, ormai non mi sorprende più. La gratuità non deve spaventarci, non va vissuta come un incubo ingovernabile. Semmai bisogna iniziare a ragionare su come intervenire per destinare risorse laddove altre se ne possono liberare; il dono dell’automazione e dell’utilizzo delle intelligenze artificiali – purché sia un uso controllato e indirizzato dall’essere umano – necessita di una governance, che va pensata per tempo, e che ovviamente non potrà non valersi di qualità creative, di fantasia e in buona sostanza d’immaginazione. Temere una deriva di sregolatezza rispondendo con chiusure irrazionali, significa rinunciare a essere interpreti di quanto sta accadendo. Mentre è importante coglierne l’alto potenziale di libertà a un preciso e più saldo livello di responsabilizzazione.
Il cambiamento è già in mezzo a noi, tant’è vero che ne stiamo osservando rovesci e problematiche. Esserne osservatori passivi, vuol dire desistere dal comprenderlo e volgerlo – almeno provarci – in situazioni vantaggiose. Quello che ha affermato il direttore Christian Greco solleva pertanto una questione di enorme attualità, che coinvolge l’impostazione politica, che quindi si riflette su una serie di altri orientamenti e scelte. Una questione strutturale, di metodo, direi. Nei miei articoli ne parlo da diverso tempo e, lo ammetto, anche forse in alcune forme piuttosto immature quando si ragionava sui primi modelli di reddito di cittadinanza o universale. È un argomento irritante per alcuni, lo capisco, ma non è evitabile. L’estrema esasperata condizionalità con cui il lavoro appare e scompare, e aggiungo anche la sensazione che i modelli e i contenuti formativi siano sempre non dico un passo indietro, ma un centinaio, rispetto alla velocità di quel che ci costringe di continuo a ripensarci, non permettono tentennamenti al riguardo.
Non è un caso, per fare un esempio in linea con queste urgenze, che proprio nell’ambito del dibattito culturale – almeno fra soggetti realmente e autenticamente in campo per trovare soluzioni e un po’ meno preoccupati dagli avanzamenti e riposizionamenti delle proprie carriere – sia molto sentito il tema della riconoscibilità delle professioni artistiche e, più ingenerale, dell’inclusività delle diverse figure operanti a vario titolo in tale settore. E ancora, fra i vari rilievi emersi ad esempio durante la conferenza di “Minicifre 2023” tenuta a Roma lo scorso 6 dicembre, si è ribadita l’importanza di incrementare osservatori aggregati del territorio per leggere, elaborare e armonizzare al meglio i dati della cultura. Trattandosi infatti di un mondo multidimensionale, con molti attori, dove peraltro l’intervento politico relativo ad alcune aree sembra incerto, prima della lettura statistica, ovverosia dei consumi, occorrerebbe tener presente la pratica culturale (o esperienza culturale), cioè il coinvolgimento, il tempo dedicato dal cittadino alla cultura. In concreto, seguendo quanto detto in questa occasione dalla professoressa Annalisa Cicerchia, economista dell’Università di Tor Vergata, più che misurare gli ingressi nei musei, come ci si ostina a fare, sarebbe opportuno misurare il tempo trascorso da una persona in un museo. Dunque tenere in mano il metro della qualità di una visita, che comprende un insieme organico di fattori, non solo l’entrata-uscita da un luogo ma cosa quel luogo è in grado di trasmetterci (e cosa può cambiare dentro di noi) durante e dopo il nostro percorso.
Come correlato si rimanda ai tracciati esperienziali dell’immersività che negli ultimi anni, specialmente nel periodo della pandemia, hanno contribuito e stanno contribuendo alle maggiori e più articolate considerazioni sul comunicarsi dell’arte, sui nodi psicologici della multisensorialità quando incontriamo (e attraversiamo) gli oggetti d’arte.
A monte di tutto si pone è chiaro un richiamo all’etica. In sintesi, le pubblicistiche possono aiutare un po’ ma bisogna che poggino su basi solide, su contenuti. Se la pubblicistica arriva a oscurare i contenuti, quando non a calpestarli, è solo un clamore fine a stesso, incomprensibile e controproducente. E uno spreco di denaro pubblico. Con la crisi economica e con i danni aggiuntivi causati da eventi atmosferici aggressivi che impattano su infrastrutture mal costruite, già discutibili e precedentemente discusse, certe propagande e manie di protagonismo meritano un po’ più di una riflessione. In questo scenario liquido, secondo le penetranti letture di Zygmunt Bauman, dove pochi personaggi alla sommità della piramide dimostrano adattabilità, velocità e un impassibile e divino distacco verso chi non ha gli strumenti per navigare e avere successo in queste condizioni – tuttavia non potranno che essere pochi i beneficiari della liquidità, perché come spiega Bauman un simile status genera appunto una struttura piramidale – sperimentiamo in pieno un deficit di rispetto in ogni sfera dell’attività umana. L’insofferenza – o incapacità – al prendere impegno con l’altro, la sensazione di essere sempre spinti via, di non potersi né volersi soffermare su qualcuno o qualcosa mette in crisi ogni minima forma o propensione solidale. Ciò proprio mentre le architetture della coesione sociale – nella forma ultima di questa selettiva piramide – vacillano. Ma che la piramide liquida non poggi su basi ferme è un bene, ed è una fatalità attesa.
Vorrei concludere sottolineando che nel corso di quest’anno – nonostante il carico di pesantezze che certi piramidali prigionieri di vecchi schemi hanno inteso gettarmi addosso – per fortuna ho avuto modo di gestire attività appaganti e parlare e confrontarmi con decine di persone, di età e percorsi professionali assai diversi. Incontrate in viaggio, durante gli eventi culturali cui ho presenziato o in fila da qualche parte. È stata un’esperienza di altissimo valore, direi di grande arricchimento personale. Perché mi sono sempre capitati interlocutori “svincolati”, con idee trasversali e traverse, insomma delle belle menti. Al contrario, devo dire, non si sarebbero avvicinati o non ci sarebbe venuta voglia di parlare. La chimica dei rabdomanti. Tutto ha contribuito agli spunti e agli stimoli che mi hanno avvicinata e per così dire “consacrata” in via definitiva a certi temi che ho sviluppato nei più recenti lavori di scrittura, nelle mie collaborazioni d’arte e in ciò che desidero coltivare nella mia ricerca.
Per approfondire:
Fuori rotta. Gli itinerari silenziosi della cultura
- Donne nell’arte, donne per l’arte - Dicembre 19, 2024
- Una parola che lenisce - Novembre 22, 2024
- I luminosi atlanti - Ottobre 31, 2024
Mi è interessato Claudia, anche se l’argomento e fuori dalla mia portata. Ma è scritto in modo tale che anche una digiuna come me, qualcosa ci ricava. Pur ritenendo in atto un cambiamento epocale non seguibile, tantomeno perseguibile da tanti.
Speriamo che gli esclusi non vengano abbandonati!
Cara amica mia, mi fa molto piacere che tu abbia letto il mio intervento. Il primo passo sarebbe/sarà fare in modo che i pochi non decidano l’esclusione dei molti. Questa mentalità e pratica verticistica, oggetto della mia discussione che qui attinge anche agli studi di Zygmunt Bauman, è quanto di più contraddittorio e improbabile nella trasformazione che viviamo. Che stiano emergendo moltissime realtà parallele dove viene messa al centro un’idea comunitaria di scambio e confronto – penso ad esempio alle cooperative di recupero di spazi e attività nei tessuti urbani o nelle borgate di montagna – è un segnale importante di un rovesciamento di pratiche e mentalità. Fra le ultime discussioni in materia rimando al ciclo di incontri “Per una drammaturgia del presente” promosso da “Hangar Piemonte”, dove curatrici e curatori di diverse realtà territoriali portano le loro esperienze così da approfondire alcune narrazioni salienti e funzionali del contemporaneo.
Per la mia attuale condizione, legata in particolare a quanto abbiamo condiviso insieme, mi sento come se quest’anno fossi passata sotto un rullo compressore. E veramente che questo possa accadere nel confronto con alcune istituzioni culturali lo trovo increscioso e regressivo rispetto alle tendenze che hanno nutrito finora la mia personalità, la mia formazione e quanto mi sto adoperando, insieme ai miei collaboratori, a portare avanti.
Visto che siamo a fine anno ed è inevitabile fare anche qualche bilancio, desidero pensare al sostegno che ho ricevuto – che non è stato di poco conto – e auguro a tutte le persone di buona volontà di potersi affermare, portando contenuti e poesia proprio laddove si insiste pervicacemente a inaridire, destabilizzare e produrre sprechi materiali e umani.