Dal greco χελιδονισμός «canto delle rondini», da χελιδών -όνος «rondine», chelidonismo è il sostantivo adattato in italiano che indica un tipo di canzone, conservata dall’erudito greco Ateneo, che i ragazzi di Rodi intonavano in primavera, recandosi di casa in casa ad annunciare il ritorno delle rondini e raccogliendo doni.
Gennaio la luna dei lupi, maggio la luna dei fiori. Le soglie dell’anno, l’inverno in cui tutto riposa, aspettando che il seme si schiuda. In quei primi giorni, se il nostro intento è sufficientemente vicino al nostro centro, affiora talvolta l’immagine di cosa saremo.
Per un periodo della mia vita ho scritto sui miei diari il giorno in cui per la prima volta mi capitava di ascoltare il canto delle instancabili migratrici. Dopo lungo tempo sono tornata a questa abitudine nel 2020. Nei silenzi delle chiusure, nella percezione indistinta ma pure a tratti lucidissima che molte cose non sarebbero più state uguali a prima, il 17 aprile scrivevo: «Oggi sono arrivate le rondini».
Andando a ritroso, studentessa, il 10 aprile del 2006 ritrovo questo appunto: «Mi sorprendono le prime rondini in mezzo a Borgo». In quei diari passati ci sono anche molte altre confessioni, scampoli di poesia, pensieri raccolti alla fine di una giornata, che mi restituiscono un ritratto vivido di me ventenne. Sembra di riascoltare la voce di una figlia che parla da lontano.
A scorrerle di nuovo ora, quelle frasi mi dicono di un infaticabile prodigio che prima non comprendevo, la cui segreta intelligenza, adesso, mi scuote come un’assidua rivelazione che aveva bisogno di tempo, di comprensione e poi ancora tempo, per giungere a compimento.
Ad esempio se rileggo un passo che avevo tratto da Michail Prišvin (avevo per le mani un suo romanzo, Ginseng): «Riesce a ricordarmi che la mia radice di vita è salva, solo per un po’ è rimasta senza crescere». Che stupefacente verità, mi dico! Quanto questa riflessione coglieva e avrebbe colto il mio incedere un po’ stentato di non rari momenti. E poi, l’intensità delle cose greche in cui vivevo ancora completamente immersa: «Porto una bella forma di parole, un canto in luogo di un discorso». Qui è Solone citato da Plutarco.
Infatti, rileggermi è canto. Rivado ai nomi, alle date, ai momenti vissuti; una nevicata in città, un temporale che mi ha colta per strada, i tramonti guardando le cuspidi di San Francesco e i tetti intorno che sembravano toccati dal fuoco.
Lì era già deposta ogni parte del mio essere, chino e intento a raccogliersi. Iside e Osiride erano una sola persona, entrambi unità, entrambi dispersi in frammenti. Né una sola lacerazione si sarebbe consumata ma più volte le tante rotture avrebbero scaturito nuove parti e la necessità di ricominciare daccapo a cercarle. E tutto ha avuto un senso, anche quello che si faticava a comprendere e che ancora sfugge. Poiché tutto è stato per l’attesa, tutto dunque si prepari alla nascita.
Si veda anche:
In ogni filo d’erba
*Dai «Calligrammi»
- Una parola che lenisce - Novembre 22, 2024
- I luminosi atlanti - Ottobre 31, 2024
- Libri et mirabilia - Ottobre 17, 2024